lunedì 13 dicembre 2010

madonnina del 2000



A Pierpaolo Miccolis, che era con me mentre la scattavo. E a Pier Paolo Pasolini che ha ritratto gli stessi volti qualche anno fa. Non è cambiato nulla, vero?

mercoledì 8 dicembre 2010

la vita secondo john



Caro John,
non essere duro con te stesso.
Concediti una pausa.
La vita non è stata pensata per essere una corsa.
La gara è finita, hai vinto.


Cavolo trent’anni, non mi ricordavo che fosse passato tanto. La morte di John Lennon ha quasi la mia età. C’è da averne paura. Voglio dire che per certi versi è spaventoso pensare di avere tanta morte in comune con una persona o almeno, volendola quantificare, più morte che vita. C’è di buono che almeno, e non è cosa da poco, per tre anni io e John Lennon abbiamo condiviso la stessa aria strana di questo mondo, magari (anche se allora non ne ero cosciente) una notte ci siamo visti la stessa luna, e poi magari abbiamo condiviso gli stessi piccoli comuni desideri, il bisogno di un abbraccio caldo, o di un gelato al limon o di starcene così, stesi al sole pigramente. In fondo che ne sappiamo di cosa condividiamo con gli altri? John Lennon avrebbe detto, guardandoti con serietà dietro i suoi occhialetti da nonna, che siamo semplicemente uomini e gli uomini fanno quello che possono e i desideri del cuore sono cose elementari, e belli proprio per questo.
Tre anni di vita contro trenta di morte. E ancora non ho smesso di scoprirlo. In vita ho comprato più o meno tutto di lui, i dischi e qualche libro. Ho visto i film. Sono passato attraverso le mie fasi più folli insieme a lui e di volta in volta c’è stato questo o quel periodo artistico della sua opera che ho preferito. Quand’ero ragazzino adoravo il Lennon psichedelico, poi è venuto quello pre-punk a cavallo fra la fine dei Beatles e i primi anni da solista. E il Lennon di Rubber Soul è ancora il mio preferito di sempre. Ogni tanto, da poco, vengono fuori i suoi ultimi demo che tracciano il profilo inedito di un uomo più maturo e pacato del simpatico guascone che tutti conoscono. Demo che ti fanno sempre un certo effetto, come sbirciare nel bagno di un altro, e chiedere che ne sarebbe stato di lui come autore, e come si sarebbe evoluta la sua musica se non fosse stato ucciso.
Cercando di rispondere a questa domanda, negli ultimi giorni, come hanno già fatto in passato molti fan fissati, mi sono messo ad ascoltare i suoi figli, sperando di poter trovare in loro e nella loro somiglianza fisica con lui, una risposta. Julian, mi spiace dirlo, mi dà sempre l’idea del figlio un po’ sfigato, che non è mai riuscito a superare il trauma per il suo abbandono. Non è colpa sua, anche John, da uomo, ha sbagliato e sbagliato alla grande. Però proprio non si riesce ad ascoltarlo. Mentre Sean è bravo, proprio bravo, anche se mette sempre un po’ a disagio guardarlo, sembra un ibrido fra John e Yoko, davvero il figlio di un amore unico e senza confini. Ecco, l’altra sera guardavo un video di Sean e non ho trovato nessuna particolare risposta ma ero lì che lo ascoltavo e mi dicevo, beh cazzo, John è morto ma la vita va avanti, e la vita spesso è semplicemente un figlio che canta le sue canzoni, anche se sa chi sei stato e che inevitabilmente lo influenzi. Fa quello che fa con l’unico scopo di dire che c’è, anche grazie a te, ma soprattutto nonostante te.



Carne morta, non sai che sei carne morta?
Ti sei appena messo con la squadra sbagliata.
Meglio non cercare di addormentarsi adesso.
Faresti meglio a correre fuori di qui.
Io chiudo gli occhi e conto fino a dieci.
Poi vengo a cercarti.

mercoledì 1 dicembre 2010

a un suicida amato

Com’è cambiato il tempo
da quando sei scomparso
ho avuto brividi per tutto il giorno
e ancora ci preannunciano piovasco.

Siamo qui e non mi capacito
che tu te ne sia andato, e non ho niente
a ripararci in tanto strepito
che questo quasi pioggia, quasi pianto.

Tu m’hai lasciato povero
persino del mio ombrello. E non ho altro.

martedì 23 novembre 2010

a proposito della morte della poesia

Ieri sera, prendevo un caffè con un’amica, si parlava di editoria e mercato e all’improvviso, dopo averci pensato un attimo, mi ha chiesto perché mi ostino a scrivere ancora di poesia, che tanto non la legge più nessuno. Sulle prime ci sono rimasto male e ho provato a rispondere meglio che potevo. Ma in effetti non è colpa sua, quella che ha espresso è un’opinione comune.
Ed è strano, ci riflettevo stamattina, come ormai si legga dovunque che la vera poesia (quale che sia la vera poesia) abbia ormai un piede nella fossa. Eppure, allo stesso tempo, in molti si lamentano scocciati, e con un atteggiamento che sinceramente trovo non poco snob, che c’è più gente che scrive poesie (spesso brutte), di quante ne legga. Oddio, per certi versi è vero: chi scrive brutte poesie toglie spazio necessario agli altri. E il mercato della poesia, che sforna centinaia di libri al giorno, arricchendosi dei sogni di tanti poveri malcapitati, ha lo stesso e di continuo i conti in rosso, perché strozza il mercato e non mette in evidenza nessuno. Insomma, come ho letto la settimana scorsa (credo) sullo speciale domenicale del Sole24Ore, la prima colpevole se la poesia non funziona oggi, è proprio la poesia. Che ci prova ma non riesce a rinnovarsi e ad adattarsi ai tempi che vive.
Questo però non significa che la poesia sia finita. Tutt’altro mi pare. Io vedo tutta questa gente che riempie i suoi diari segreti o i muri alla stazione o i tovagliolini dei bar, se preferite quel tipo di romanticherie, e sono felice, davvero. Anche se poi quel che scrive sono cazzate, e se quelle cazzate non intaccheranno minimamente, per loro stessa natura, il mercato editoriale.
Il fatto che la gente, molta gente, tantissima, senta il bisogno di mettersi e scrivere in versi i propri sentimenti o stati d’animo, io la vedo una cosa bellissima, e molto molto consolante. Significa che al di là di tutte le lamentele che giornalmente vengono a propinarci, e del fatto che si rimproveri oggi, a tutti, di essere vuoti e spenti e privi di ambizioni e sentimento, c’è ancora chi ci crede nella poesia, chi la sente sua e la vive come un’esigenza primaria, per cui fermarsi ad appuntare dei versi diventa una cosa necessaria, fondamentale, proprio come mangiare e dormire. Magari sarà anche poesia ingenua nella forma ma nello spirito c’è tutta, e cos’altro conta alla fine?
In fondo, se ci pensate bene, abbiamo cominciato tutti così. Con un foglio di carta e una penna e la volontà di parlare col cuore in mano. Soli e nudi e con l’impulso irrefrenabile a dire, a raccontarsi. Certo, chi poi ha continuato seriamente ha letto, si è formato, ha studiato le regole del verso, ma quello va già oltre l’indispensabile. Non tutti saranno il nuovo Montale, o il nuovo Sereni, perché per quello occorre qualcosa di più, che va oltre la semplice passione ma, così come succede per altre forme d’arte (l’ascolto della musica classica ad esempio), è più facile che ad appassionarsi alla poesia sia qualcuno che la frequenta con amore giorno per giorno, portandosela appresso e coccolandola, che non chi la sente estranea e del tutto ininfluente alle incombenze quotidiane.
Casomai, poi, andrebbero coltivati i poeti, cercando di creare degli incontri, continui, fra chi scrive e chi ha scritto, ricordando che i poeti di qualsiasi epoca o nazione o lingua sono tutti fratelli, e devono solo ritrovarsi per pochi minuti per scoprirlo. Ma quella è già un’altra storia. Una storia che non si accorda per nulla coi tempi che viviamo.

lunedì 15 novembre 2010

la storia che mi ha raccontato un amico

Hai presente Amburgo, il paradiso delle troie? Ero lì, sarà stato un anno fa, ero con questa tipa che avevo conosciuto la settimana prima a Copenaghen, una specie di colpo di fulmine o qualcosa del genere, e insomma avevamo passato la giornata fuori per negozi, e con la scusa di farmi vedere la città ci portavamo a spasso la figlia. La tipa voleva che si facesse amicizia perché l’intenzione era di fermarmi lì un po’ e quindi era meglio andare subito d’amore & d’accordo.
Insomma eravamo lì che tubavamo alla grande e sembravamo quasi una famiglia, e anche con la piccola eravamo grandi amici, e cammina cammina senza manco accorgerci, ci siamo ritrovati vicino alla Reeperbahn. Il bello è che non ci pensavamo proprio, ti rendi conto?
Beh, ce ne siamo accorti quando, girando l’angolo, ci siamo ritrovati davanti a sto troione altissimo, quasi senza vestiti, ehi, bella da togliere il fiato, con ‘sti due occhi freddi, capaci di raggelarti con uno sguardo.
E insomma, si camminava e abbiamo sbattuto contro di lei. E la piccola se l’è squadrata tutta dalla testa ai piedi e ha cominciato a fissarle la patata, ti rendi conto? Considera che era già ottobre e faceva un freddo cane, e noi ce ne stavamo lì tutti chiusi per il freddo e questa qui se ne stava lì come nulla, mezza nuda davanti a noi, con la patata di fuori e ci guardava con questi due occhi da far paura, sembrava una sorta di vichinga o qualcosa del genere, hai presente?
Beh, la bambina sai che fa? Da non crederci, la bambina la guarda lì, le fissa la patata e le dice, con tutta l’innocenza che può avere una bambina, le dice: “Ma come mai stai tutta scoperta, che fa freddo?” E a me viene da ridere e guardo sua madre che invece si è fatta tutta bianca, sembra di gesso, pensando a tutte le spiegazioni che dovrà dare poi alla figlia, sai il fiore & la cicogna e tutte quelle stronzate, e sai cosa fa il troione? Non ci crederai mai, il troione si piega tutto sulla bambina, la guarda con quei suoi occhi di ghiaccio e le dice con ‘sto vocione, le dice: “È perché ho nostalgia della primavera”. E ce la siamo filata. Bella storia, vero?


venerdì 5 novembre 2010

l'ospite

Resto l’unico tuo ospite, mi accorgo
a passeggiare per le camere deserte
della casa. Dall’altra parte della strada
osservo i ragazzi dare le spalle al mare
disperarsi in faccia agli alberghi deserti
del fuori stagione, disperarsi per il vento
che non fa prigionieri, sognare le tonnare
violente, le battaglie di sangue e remi
guardate di sera in tv per riempire i silenzi
sognare il suicida dall’altra parte del muro
ogni notte quel tonfo di scarpa che batte
lì dov’è cominciata e ti dicevi
non scrivo più diari. Una foto ti mostrava
inquieta e sorridente sotto il panama bianco
e tu correvi ogni sera in pizzeria
dal signor Enzo per offrirgli
quel sorriso, insieme con l’ultimo sorso di vino.


(poesia ispirata all’opera di Licia Vignotto)

mercoledì 3 novembre 2010

di sabbia e silenzio


“Probabilmente tutto è nato nella redazione del Corriere della Sera. Dal 1933 al 1939 ci ho lavorato tutte le notti, ed era un lavoro piuttosto pesante e monotono, e i mesi passavano, passavano gli anni e io mi chiedevo se fosse andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età, altri molto più anziani, i quali andavano, andavano, trasportati dallo stesso lento fiume e mi domandavo se anch’io un giorno non mi sarei trovato nelle stesse condizioni dei colleghi dai capelli bianchi già alla vigilia della pensione, colleghi oscuri che non avrebbero lasciato dietro di sé che un pallido ricordo destinato presto a svanire.”
Dino Buzzati, parlando del Deserto dei Tartari

mercoledì 27 ottobre 2010

la fretta del cuore

Come la Berté ha sconvolto la classica serata per famiglie Rai, rivelandone i meccanismi perversi



Dio benedica Loredana Bertè! Stasera ospite di quell’immane porcata che è Ti lascio una canzone, su Rai Uno, ancora una volta ha dimostrato come classe ed eleganza non sempre vadano a braccetto, ma quanto bene fa all’arte certe volte.
Nei circa dieci minuti che è rimasta sul palco la Bertè si è dimostrata un’artista talmente imprevedibile, pericolosa, come da tempo non mi capitava di vederne in tv, da smontare in pochissimi istanti tutto l’immenso baraccone di falsità e orrore che questa trasmissione rappresenta. Detesto Ti lascio una canzone, la detesto perché dietro tale e tanto buonismo deamicisiano, non si nasconde altro che la solita e morbosa attrazione per l’ambiguità sessuale tipica del nostro popolo. Tutto qui dentro sembra rivoltato, sottosopra, questi bambini spremuti e sfruttati al massimo per le tanto decantate qualità canore “da adulto” abbinate ai loro visini innocenti, sembrano già grandi, o meglio ancora sono talmente invecchiati da risultare indefinibili, mentre cantano con finta passione pezzi che non li riguardano, non esprimono il loro mondo interiore, al massimo quello del pubblico pagante, in delirio più e più volte per tali capacità imitative, da scimmiette ammaestrate. La Clerici, che conduce tutto il baraccone, per non essere da meno, e nonostante i suoi buoni sentimenti da neo mamma appagata, ringiovanisce a ogni puntata in maniera ridicola, basta una frangetta, il trucco pesante e un vestitino stretto che tira fuori le tette ed eccola lì la ragazzina, che fa battute ammiccanti ai bambini, giocando con loro questo strano gioco dei piccoli grandi uomini, senza una vera età.
In tutto questo, all’improvviso, poco dopo cena, è piovuta Loredana Bertè, matta e benedetta insieme. Avvinazzata sembrava, o forse fumata, non so. Andava a ruota libera, sputava le parole, del tutto incontrollabile. Chissà come avrà sudato freddo la Clerici, quella vecchia volpe televisiva, guardandola esibirsi. Forse avrà pensato che certa gente non dovrebbe più apparire in tv.
Ma ascoltate me, la Bertè è stata grandissima, unica! Scorretta in una maniera che ormai non è più accettata (o accettabile) in tv, una boccata fresca per un canale così paludato com’è Rai Uno.
Loredana Bertè è arrivata su di un palco laccato di bontà e buoni sentimenti cantando Sei bellissima e nulla è stato più come prima. Perché la Bertè non finge la sensuale innocenza di queste bambine che potrebbero tranquillamente fare il verso alla Cinquetti di Non ho l’età; la sensuale innocenza a cui tali bambine tutta facciata, coi loro vestitini corti ed eleganti, gli occhiali spessi da segretarie disponibili e le frangette in linea con la Clerici, alludono. La Bertè è pericolosa. E stronza. E la prima cosa che ha fatto arrivando sul palco è stata smontare il baraccone di falsità e piccoli insidiose ipocrisie su cui è costruita tutta la trasmissione. Come ha fatto? Ha cominciato a giocare con loro, come fa il gatto col topo. “Mi diverto proprio, stasera me diverto proprio” ha detto a un certo punto, con una punta di sadismo nella voce. E poi al ragazzino intervenuto e per nulla divertito: “Ciao, figo!”
È stato uno spettacolo inquietante vederla abbracciare, prendendoli alle spalle, tutti e due i maschietti che hanno duettato con lei, in maniera talmente incorrect da risultare quasi pornografica, stringerli a sé con le sue mani unghiate e sussurrare, mentre loro cantavano secondo copione, la canzone al loro orecchio, in modo che le sue labbra lo sfiorassero più volte. Sembrava proprio un vampiro e il primo bambino, in particolare, era terrorizzato! Per una volta il suo sguardo non mentiva.
O ancora in un altro duetto con una ragazzina su E la luna bussò, ballare accanto a lei e mostrare maliziosamente il sedere e lo spacco alle telecamere. O zittirne un’altra con un gesto brusco, perché la intralciava in Non sono una signora e subito dopo baciarla per farsi perdonare la sgarberia. La Bertè è stata in tutto e per tutto esagerata, e ingrassata, vestita male e pettinata peggio, con gli occhiali scuri a coprire gli occhi pesti, come li ha mostrati per pochi istanti, in un allucinato dialogo con la Clerici, che prima che combinasse altri guai, ha mandato la pubblicità. La Bertè con la voce roca, talvolta stonata, distrutta da una vita di stravizi, che non ha nulla a che fare con le voci finto-impostate di questi poveri ragazzini che per fortuna non capiscono, non abbastanza almeno da farsi venire i brividi, come succede a me.
Voi mi direte adesso che non ci si dovrebbe comportare così con dei bambini, che è stupido e crudele, ma del resto la Rai è molto più colpevole, avendo montato intorno a loro tutta questa trappola che prevede anche che la Berté possa fare questo, se vuole. E la Bertè, che secondo me non è più lucida da anni, ha solo colto per intuito quello che accadeva e lo ha mostrato, nudo e crudo al mondo, secondo la propria poetica, che è una poetica dell’imbarazzo, cioè del forzare le situazioni a tal punto da renderle imbarazzanti, rivelandone così le contraddizioni, i meccanismi perversi. L’ho già detto, non è elegante, ma è pur sempre arte. Prendere o lasciare.
Quanto a me, io prendo e prendo tutto, e non sono nemmeno solo. Non ho mai visto i musicisti della trasmissione divertirsi tanto a suonare, come con lei.

lunedì 25 ottobre 2010

il regolo



È strano per un regolo, mi dici
trovarsi così a sud, e mi fissi
dallo schermo e mi sorridi
vedendomi confuso. Ma è tanto
così tanto che mi penso un vecchio orso
che l’idea di metter l’ali e risalire
le distanze chilometriche
del mondo a realizzare il nostro sogno
mi appare così assurda. Bugiardo
mi rispondi, il regolo o regalo
del risveglio, non sopporta solitudini
e lo sai. E tu, come potresti mai
fantasticare nuove notti in bianco,
sulle distese vuote dell’inverno?
Ma io non volo e non canto.
Hai nascosto bene il becco nelle piume.

lunedì 18 ottobre 2010

la fringuella e l'uomo scimmia

Considerata una delle grandi e meno conosciute canzoni di Bob Dylan, Tweeter and the Monkey Man venne realizzata quasi per gioco per il primo album dei Traveling Wilburys, che qui fanno da coro. Era il 1988 e la carriera di Dylan era a un punto morto, salvo poi ripartire per un lungo, sbandato e intenso periodo, anche grazie al rilancio commerciale derivatogli da questo breve disco, registrato in amicizia e dal sapore facile e scanzonato. E infatti, del disco coi Traveling Wilburys, le canzoni con più fondo sono proprio quelle di Dylan: una è l’amara e sarcastica Congratulations (“Congratulazioni per avermi spezzato il cuore”), l’altra questa Tweeter and the Monkey Man, da intendersi come una spassosissima parodia di Bruce Springsteen, di cui Dylan non solo riutilizza le atmosfere, le immagini e i modi di dire da uomo di strada, ma cita quasi a ogni verso una sua canzone, meno che negli ultimi due dove, invece, cita se stesso, ricalcando alla perfezione il finale della sua Lily Rosemary and the Jack of Heart (1974), e così iscrivendola nel folto gruppo di canzoni-narrative o canzoni-copione, tanto sono cinematografiche, di cui Dylan è stato probabilmente il più grande maestro.
Già per il suo fraseggio e per il modo infuocato in cui la canta, questa canzone sarebbe rimarchevole. Ma di cosa parla Tweeter and the Monkey Man? Premettendo che, nonostante le citazioni, è stata scritta nel tipico stile frammentario di Dylan e quindi omette molti particolari, si può dire che in linea di massima racconta un noir dal sapore tragicomico e surreale, che anticipa certo cinema indipendente americano. La Fringuella (ovviamente un travestito) e l’Uomo Scimmia hanno fregato un poliziotto infiltrato nella malavita e probabilmente corrotto. Gli hanno rivenduto un finto carico di droga, e ora il poliziotto si vuole vendicare. In loro aiuto accorre la sorella del poliziotto, Jan, che è innamorata dell’Uomo Scimmia. Il finale resta più o meno aperto, anche se dalle ultime strofe si può dedurre che a raccontare la storia sia il marito di Jan, il malavitoso, a cui è crollata addosso (metaforicamente) la casa quando lei è scappata coi due imbroglioni. Quando si dice “casa” qui non si intende l’istituzione famigliare ma la casa del Capo (Mansion on the Hill è scritto nel testo originale, cioè la casa padronale), quella che dovrebbe rappresentare l’istituzione criminale di cui il marito di Jan è un boss, e in cui ha perso credibilità dopo che l’Uomo Scimmia l’ha fregato prima col finto carico di droga e poi portandogli via la moglie. Ovviamente nell’immagine del crollo della casa giù fino all’inferno, vi è un’eco dell’infernale Caduta della Casa Usher di Poe. E Dylan utilizzerà lo stesso punto di vista, quello di chi vede andar via la sua sposa con un altro, pochi mesi dopo ma con un taglio molto più drammatico e luciferino per un capolavoro ancora più grande, l’oscura Man in the long black coat, in Oh mercy (1989).



La Fringuella e l’Uomo Scimmia erano di nuovo senza un soldo
e avevano passato l’intera notte a vendere hashish e cocaina
a un poliziotto infiltrato con una sorella chiamata Jan
che per ragioni inspiegabili amava l’Uomo Scimmia

La Fringuella era stato un boyscout prima di finire in Vietnam
e di scoprire nel modo peggiore che a nessuno gliene frega un cazzo
i due sapevano di trovare la libertà appena passato il confine col Jersey
così saltarono su una macchina rubata e imboccarono la Highway 99

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

Al poliziotto infiltrato l’Uomo Scimmia non era mai piaciuto
persino da bambini voleva metterlo al fresco
Jan che a quattordici anni aveva sposato un malavitoso chiamato Bill
fece in segreto dalla casa del Capo una chiamata all’Uomo Scimmia

Accadde sulla Strada del Tuono, la Fringuella era al volante
si schiantarono in un paradiso sentendo stridere le proprie ruote
il poliziotto infiltrato li fermò e disse “Voi siete due bugiardi
e se non vi arrendete adesso, vi troverete nella merda”

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

Poi arrivò un’ambulanza, e poi un agente a cavallo
la Fringuella gli prese la pistola e gli mollò una botta in testa
il poliziotto infiltrato fu legato stretto a un albero
accanto al chiosco di souvenir vicino alla vecchia fabbrica abbandonata

Il giorno dopo il poliziotto era già all’inseguimento
era un fatto personale adesso, non gli fregava del malloppo
Jan gli aveva detto tante volte “Sei tu che l’hai insegnato a me
nel Jersey tutto è legale finché non ti prendono”

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

Rimasero senza benzina vicino alla prigione di Rahway
il poliziotto li incastrò dicendo “Mica avrete pensato che potesse durare”
Jan saltò giù dal letto e disse “Devo andare in un posto”
prese una pistola dal cassetto e poi “È meglio che tu non sappia dove”

Il poliziotto infiltrato fu trovato in un campo a faccia in giù
l’Uomo Scimmia era sul ponte del fiume e usava la Fringuella come scudo
Jan disse all’Uomo Scimmia “Non mi incantano i riccioli della Fringuella
lo conoscevo già prima che diventasse una ragazza del Jersey”

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

La città di Jersey ora è di nuovo tranquilla
me ne sto seduto in una casa da gioco chiamata la Tana del Leone
la televisione è stata fatta saltare, non ce n’è più nemmeno un pezzo
da quando al tg della sera hanno mostrato l’Uomo Scimmia

Credo che me ne andrò in Florida a prendere il sole
tutto è già stato fatto qui, non ho altre occasioni
a volte penso alla Fringuella, a volte penso a Jan
e a volte non penso a nient’altro che all’Uomo Scimmia

E le mura crollarono giù fino all’inferno
e non le ho mai viste quand’erano in piedi
non le ho mai viste quando sono cadute

martedì 12 ottobre 2010

dormiveglia

Era bellissimo starsene così, appollaiati sul divano avvolti in una grande coperta, con le gambe penzoloni sul bracciolo e gli occhiali per terra accanto a una copia dei 49 racconti. Starsene così pigri, e nell’aria un po’ fumosa della stufa pensare all’ultimo racconto appena scritto e ancora da limare e a tutti quelli che sarebbero venuti forzando la pigrizia, e chiedersi se un giorno e quando il cuore avrebbe smesso di dolersi d’ogni cosa, una alla volta, una alla volta, e sempre una di meno fino al giorno che non gli sarebbe importato più di nulla. E chiedersi come sarebbe cambiata così, nel tempo, la sua scrittura e se sarebbe rimasta almeno quella un giorno, finito lui, a testimoniare che qualcosa c’era stato e aveva, per quanto piccola, la sua importanza.

sabato 9 ottobre 2010

goodbye pork pie hat



La vita scorre quieta, ci si sveglia presto
in quest’aria celestina e si arriva lenti a sera
conquistando poco per volta un brandello
di tavolo, liberandolo dai progetti di lavoro.
S’invecchia senza muoversi così, a un tavolo.
Si dorme troppo o non si dorme affatto.

Come stai? Mostri ancora quel tuo aspetto
di zia hippie? La tua pancia è sempre dolce?
Più ti dona il viola dei pensieri?

Come vorrei sapere, vorrei tu stessi bene.
Non mi sento più a mio agio nel parlarti
e se ti incontro è solo per negarti ingiustamente.
Ti smuove il ricordare? O di quei giorni
resta solo un manoscritto, un’anticaglia
conservata nel cassetto con le lettere e le tue fotografie?
Ricordi?

giovedì 7 ottobre 2010

perché occorre ritradurre l'hemingway della maturità

Pubblico un bellissimo articolo di Piero Ambrogio Pozzi, che ho letto su Le Reti di Dedalus (qui). È un po’ lungo all’apparenza ma parecchio scorrevole e assolutamente rivelatore di pratiche e consuetudini relative al mondo dell’editoria che andrebbero sempre tenute presenti e non solo in questo caso. Poi, ovviamente, da grande appassionato di Hemingway non posso che sottoscrivere tutto, parola per parola, quel che è scritto.



Ernest Hemingway non aveva un buon rapporto coi critici; ne aveva uno peggiore con gli accademici. Combatteva spesso con i professori, soprattutto per convincerli a non scrivere sue biografie mentre era ancora in vita. Una battaglia persa in partenza, perché non c’era università in cui non si avviassero studi su un soggetto tanto celebrato. Furono costruite carriere, sugli studi hemingwayani.
L’assedio degli studiosi cominciò a farsi fastidioso, e poi insopportabile, nel secondo dopoguerra, quando Hemingway tornò a pubblicare dopo un decennio di silenzio: prima Across the River and Into the Trees, e poi The Old Man and the Sea, i libri dei quali mi occuperò in questo articolo.
Quasi nessuna delle critiche ad Across the River and Into the Trees gli fu favorevole. Poche di quelle a The Old Man and the Sea gli furono gradite. Apprezzò, e ne fu fiero, soltanto il blurb chiesto al rispettato storico dell’arte Bernard Berenson per la quarta di copertina di The Old Man:
An idyll of the sea as sea, as un-Byronic and un-Melvillian as Homer himself, and communicated in a prose as calm and compelling as Homer’s verse. No real artist symbolizes or allegorizes – and Hemingway is a real artist – but every real work of art exhales symbols and allegories. So does this short but not small masterpiece.
Hemingway si definiva uno scrittore che cercava di scrivere bene storie vissute, o meglio rese verosimili dalle sue esperienze di vita, che non erano precisamente le stesse dell’uomo medio. Davvero aveva esperienza di guerra, di tauromachia, di caccia grossa, di amore in tutte le sue declinazioni. Non aveva bisogno di assegnare simbolismi o sottintesi psicologici alle sue costruzioni letterarie. Tuttavia era perseguitato da una saggistica saccente e disinformata, frutto dell’invenzione di letterati che non potevano avere accesso al suo stile di vita né cercavano di impostare i loro studi sulla diretta conoscenza del soggetto: invariabilmente importunavano Hemingway a progetto già definito, cercando conferme che Ernest non poteva dare, e facendolo imbufalire per la perdita del suo prezioso tempo. Hemingway voleva solo scrivere, e scrivere bene.

Dopo aver combattuto in patria senza successo le biografie non autorizzate, figuriamoci se poteva combattere le cattive traduzioni all’estero. E in Italia queste apparvero, in un periodo in cui Ernest si costringeva a star lontano dal nostro paese, soprattutto da Venezia (Il vecchio e il mare uscì nel 1952), e dopo che aveva scelto con la morte di starne lontano per sempre (Di là dal fiume e tra gli alberi uscì nel 1965). Il mito di Hemingway si dissolse acriticamente nel mito di Fernanda Pivano, poi consacrato nel doppio Meridiano dei romanzi di Ernest assieme alle altre traduzioni, che non sono, ripeto, oggetto di questo articolo. Senza interventi di revisione, autentiche sciocchezze scivolarono – ancora senza rimedio – sotto gli occhi dei lettori, molti dei quali si saranno chiesti dov’era la grandezza di Hemingway. Più di un critico nostrano scrisse degli ultimi libri di Hemingway come di libri minori. Ah, se qualche revisore avesse scrostato via la sciatteria, se qualche redattore avesse indagato solo un poco sulla incomprensibilità di certe frasi, qualche generazione di lettori avrebbe potuto meglio capire, soprattutto sentire. Avrebbe sentito che in Across the River si parlava di amarezza del mestiere di soldato, di onore, amore e morte, che il passaggio in Veneto da Latisana non era preso dal Baedeker né dalla Guida Michelin, ma dal cuore. Avrebbe sentito che The Old Man era scritto in una prosa per la quale Hemingway aveva lavorato tutta la vita, una prosa che si leggesse facilmente, in semplicità, che sembrasse concisa pur avendo tutte le dimensioni del mondo visibile e del mondo che sta nello spirito d’un uomo.
Non solo. I nostri studiosi, stimolati da traduzioni decenti, avrebbero scoperto molte cose interessanti. Per esempio la stretta derivazione di Across the River dal Notturno di Gabriele D’Annunzio, al limite del plagio. La lettura parallela di Across the River e del Notturno è emozionante, e dà un’idea di quanto l’Italia e l’anima italiana fossero ammirate da Hemingway, una constatazione non da poco in questo periodo in cui ci si trastulla a sentirsi derisi dal mondo. Cito solo uno scampolo di parallelismo: D’Annunzio infermo lascia fluire i suoi ricordi di guerra, vita e morte steso sul letto della Casa Rossa, il colonnello Cantwell prossimo a morire lascia scorrere pensieri simili steso su un letto del vicino Hotel Gritti, nel sestiere di San Marco, a Venezia. La narrazione del Vate è raccolta dalla figlia Renata, quella del colonnello da… Renata, la sua Daughter. E spesso parlano degli stessi campi di battaglia, sul Carso, sul Pasubio, nel Basso Piave; o di sorella Morte, che per Cantwell è Thanatos, il fratello del Sonno.



Tre esempi di cattiva traduzione, tra gli innumerevoli da Across the River.

Il protagonista, colonnello Cantwell, parla di D’Annunzio:
…writer, poet, national hero, phraser of the dialectic of Fascism, macabre egotist, aviator, commander, or rider, in the first of the fast torpedo attack boats, Lieutenant Colonel of Infantry without knowing how to command a company, nor a platoon properly, the great, lovely writer of Notturno whom we respect, and jerk.

Questa la traduzione corrente:
…scrittore, poeta, eroe nazionale, cantore della dialettica del fascismo, egoista macabro, aviatore, comandante o autista nella prima Mas, tenente colonnello di fanteria che non sapeva da che parte si comincia a comandare una compagnia e neanche un plotone, il grande, meraviglioso autore del Notturno che tutti rispettiamo e sfottiamo.

Ci sono alcune cose da rettificare, soprattutto che D’Annunzio non era un autista, ma l’eroe della Beffa di Buccari:
…scrittore, poeta, eroe nazionale, formulatore della dialettica fascista, macabro egotista, aviatore, comandante – o membro d’equipaggio – sulla prima delle motosiluranti d’attacco, tenente colonnello di fanteria senza sapere come comandare decentemente una compagnia e nemmeno un plotone, il grande, delizioso autore del Notturno rispettato da tutti, e imbecille.

Cantwell racconta la tragedia della battaglia nella foresta di Hurtgen, nella seconda guerra mondiale:
Tree burst wounds hit men where they would never be wounded in open country.

Questa la traduzione corrente:
Tre ferite laceranti colpirono gli uomini dove non sarebbero mai stati feriti se fossero stati in zona aperta.

Questa una traduzione più attenta, dove si comprende che gli uomini erano feriti dall’esplosione degli alberi colpiti dalle cannonate:
L’esplosione di alberi feriva gli uomini dove non sarebbero mai stati feriti in aperta campagna.

Cantwell ricorda la battaglia di Gettysburg, combattuta durante la guerra di secessione americana:
They killed several men from the Academy at Gettysburg.

La traduzione corrente:
Hanno ucciso parecchi che uscivano dall’Accademia di Gettysburg.

Una traduzione che tiene conto della Storia:
A Gettysburg hanno ammazzato parecchi uomini che venivano dall’Accademia.

Anche il capolavoro di Hemingway, The Old Man and the Sea, il libro che l’ha portato al Premio Pulitzer e al Nobel, è stato rovinato. L’originale del lungo racconto è costruito in assoluta semplicità lessicale, con personaggi umili e ambientazioni ridotte al minimo. Il ritmo è lento, dialoghi e monologhi sono brevi e poco articolati, espressi con la calma cadenza di chi ha tempo per pensare e parlare con le poche parole che conosce, usandole con naturale precisione. La versione corrente non rispecchia la semplicità dell’originale, e talvolta usa impropriamente parole rare o ricercate, con una stringatezza in contrasto con le intenzioni dell’autore e il carattere dei personaggi, tanto che contro la normalità il testo italiano risulta talora più breve di quello inglese. E poi continua la seminagione di errori, anche grotteschi.
Tre esempi.

Si descrivono le pareti della baracca di Santiago, il pescatore:
…there was a picture in colour of the Sacred Heart of Jesus and another of the Virgen of Cobre.

La traduzione corrente:
…vi era una fotografia a colori del Sacro Cuore di Gesù e un’altra della Vergine di Cobra.

Una traduzione che tiene conto dell’impossibilità di fotografare il Sacro Cuore di Gesù ed è informata che la patrona di Cuba, la Vergine del Cobre (rame, da una miniera presso il Santuario), non ha a che fare con serpenti:
…c’era una stampa a colori del Sacro Cuore di Gesù e un’altra della Vergine del Cobre.

Una frase tecnica, formulata con parole semplici:
Each line, as thick around as a big pencil, was looped on to a green-sapped stick so that any pull or touch on the bait would make the stick dip and each line had two forty-fathom coils which could be made fast to the other spare coils…

La traduzione corrente:
Ogni lenza, spessa come una grossa matita, era fissata a un bastoncino instabile in modo che ogni volta che l’esca veniva tirata o sfiorata il bastoncino cadeva, e per ogni lenza c’erano due duglie di quaranta tese che si potevano aggiungere ad altre duglie di riserva…

Nella traduzione si deve far capire cos’è un green-sapped stick, e usare parole semplici, ma esatte. I fathom non sono tese, e i coil non sono duglie:
Ogni sagola, della sezione d’una grossa matita, era annodata su un ramo verde asciutto in modo che ogni trazione o tocco sull’esca avrebbe fatto immergere il ramo, e consisteva in due rotoli da settantacinque metri che potevano essere giuntati agli altri rotoli di scorta…

Una riflessione di Santiago:
I have eaten the whole bonito. Tomorrow I will eat the dolphin. He called it dorado.

La traduzione corrente:
Io ho mangiato tutto il bonito. Domani mangerò il delfino. Lo chiamò dorado.

Nella traduzione si deve tener conto che dolphin(fish) non è un delfino, come è pure spiegato. Si tratta di un dorado, che nei nostri mari si chiama lampuga. Si può risolvere così, conservando il bel nome spagnolo:
Io ho mangiato tutto il bonito. Domani mangerò il dorado. Che gli americani chiamano dolphin.

Ora si sono materializzate nuove traduzioni. Chissà se da Mondadori qualcuno sarà disposto a riconoscere che alcune edizioni non possono più essere ristampate, ma devono essere riconsiderate, rifatte, magari impaginate con materiale nuovo. Potrebbe anche essere un affare, sicuramente un atto dovuto a Papa Hemingway.

lunedì 27 settembre 2010

pomeriggio dopo la vendemmia

In questi giorni stiamo realizzando, col mio giornale, un piccolo reportage sulla vendemmia, o meglio su quello che succede al pomeriggio, quando i contadini portano in cantina l’uva raccolta perché venga pigiata. Vivendo praticamente accanto a tre cantine, mi basta uscire di casa con la macchina pronta in mano. Mi interessano soprattutto le persone, i loro volti. Per lo più si tratta di gente non più giovanissima, che in campagna ci vive da sempre. È gente orgogliosa ma semplice, con quel pizzico di vanità di chi gradisce sempre che gli si faccia una foto. Inoltre è gente sfinita da una lunga giornata di lavoro, in attesa del suo turno, e quindi assolutamente pronta alla battuta. In fondo basta una risata per risollevare lo spirito. Queste sono le prime foto del reportage.








domenica 19 settembre 2010

un pensiero a calvino

19 settembre, leggo sul blog di Sergio Pasquandrea una commossa apologia di Calvino scrittore, di cui proprio oggi cade l’anniversario di morte. È una cosa che fino a pochi anni fa sarebbe stata impensabile, eppure anche su Calvino si abbatte con sempre più frequenza la scure del revisionismo critico. Ci si chiede: va bene che per la Scuola sia un mito, il must della scrittura italiana del ‘900, ma tutta quest’aura di santità artistica sarà poi meritata? È stato o no Calvino il genio letterario che oggi tutti ci propinano al liceo? La risposta dei più ormai è la stessa: Calvino è stato un buono scrittore del ‘900, molto abile (e furbo) ad autopromuoversi, ma di certo non il più grande e, forse, la Scuola dovrebbe fare un po’ di revisionismo anche lei e cominciare a dare spazio ad autori ben più importanti, anche sul fronte internazionale, come Svevo, Pavese, Pasolini, Gadda o Sciascia.
Ora, fermo restando che sapersi autopromuovere non è mai stato un crimine ma anzi, in ambito culturale, da sempre un merito, almeno per chi volesse vivere del proprio lavoro d’artista, e che comunque non è che Calvino sul fronte internazionale sia un signor Nessuno (basti vedere l’enorme e dichiarata influenza che ha avuto su un autore contemporaneo come Jonathan Coe), c’è da dire che: uno, Calvino fu figlio del suo tempo, e sconta il senso di distanza che l’attuale indirizzo artistico nutre proprio verso quello sperimentalismo metaletterario di cui proprio lui fu uno degli esponenti più autorevoli, al fianco di Queneau. Una cosa simile tra l’altro accade in poesia nei confronti dell’Ermetismo, con un forte senso di rifiuto anche verso poeti di fondamentale importanza come, ad esempio, Montale. E: due, come dice bene Sergio sul suo blog, la canonizzazione scolastica ammazza tutti, senza distinzioni di sorta.
Poi certo, se è vero che a lui piacque diventare un oggetto di culto della Scuola (e a chi non piacerebbe? anche a Pasolini sarebbe forse piaciuto), è anche vero che, se la Scuola lo ha santificato, non è nemmeno tutta colpa di Calvino. Come per i fatti d’amore, si deve essere in due in questo tipo di scelte. Fra l’altro, questa storia mi ricorda un po’ tutte le polemiche che da anni si sentono intorno al Manzoni dei Promessi Sposi. Sarà anche il più acclamato capolavoro dell’800 italiano ma io, e non solo, gli preferisco Verga dei Malavoglia. Però sono più contento così. In fondo, alla fin fine ci si dovrebbe anche chiedere chi ci perde di più fra Scuola e Calvino in questo rapporto di dipendenza reciproco. E sinceramente io credo che il vero perdente sia Calvino. Mentre autori come Pavese o Pasolini, proprio come Verga, sono presi con le pinze dagli insegnanti e poi, negli anni successivi al liceo, sono quelli che più a lungo restano nel cuore degli studenti, che li scoprono e se li vivono per fatti loro, senza “istruzioni per l’uso”, per Manzoni non c’è ritorno. Finito il liceo Manzoni è morto, è solo un brutto ricordo dell’interrogazione di Italiano.
Insomma, ai suoi detrattori dico, perché lamentarsi? Si studia Calvino a scuola e si legge (o si spera che si legga) Pasolini a casa. Meglio Calvino che Moccia aggiungo, e credo che nessuno, per quanto critico nei suoi confronti, possa venirmi a dire che non è d’accordo. Vorrei concludere osservando che il canone Calvino non è ancora arrivato né credo arriverà mai al livello di Manzoni. Dico queste cose a freddo, anche perché Calvino l’ho letto, l’ho rispettato ma non l’ho mai amato. Però il nostro ha scritto molti libri e alcuni molto belli, non solo il più volte citato dai critici Le città invisibili, ma anche Giornata di uno Scrutatore, Palomar, e Lezioni Americane (che, piacciano o no, sono pur sempre terreno seminale per lunghe riflessioni), e senza contare l’ottimo lavoro filologico condotto intorno al sottobosco delle Fiabe italiane e all’Orlando Furioso. Conosco, e non sono pochi, studenti che lo leggono proprio per questi romanzi e ancora lo rispettano per la sua scrittura chiara, precisa e limpida e anche perché, nonostante rifiutino le pesanti architetture di cui infarciva le sue storie, tuttavia intuiscono a pelle quella “sostanza prettamente tragica” (come la definisce Sergio) che talvolta emerge, suo malgrado, dalle pagine dei suoi libri.

sabato 18 settembre 2010

rain dogs



Metto ordine sul sedile
posteriore ma vago
e apparente. Nelle zona industriale
di notte resta qualche luce accesa
e cani randagi si accoppiano
senza prendere precauzioni.

(Vito Russo)

martedì 14 settembre 2010

diario d'autunno

Parlare di autunno non è corretto. C’è ancora un sole che picchia e picchia giù duro. Eppure basta un semplice rovescio per far tornare in gola la malinconia, in forma di brutti rospi saltellanti e che mai mi staranno simpatici.
Sarà Paolo, che mi ha chiamato per dirmi che è di nuovo in ospedale e ha deciso, ormai è sicuro, che come esce prende, si licenzia e torna in Jugoslavia, lì dove sono cominciati i suoi problemi, e io non so se essere più contento o triste, perché lì non ha davvero nessuno che gli starà accanto e quindi o la va o la spacca. O fa pace coi suoi demoni oppure si spara un colpo in fronte e la fa finita. E in tutto questo, non sapendo come comportarmi, io non dico nulla. Sto qui e lo guardo partire e comincio a credere che forse è meglio questo che restarsene a galleggiare in una bottiglia tutto triste e infelice com’è. Così non va bene.
Sarà che vado ubriaco io, perché qui vicino a cinquecento metri c’è una cantina che lavora a massimo regime per la vendemmia e dall’alba al tramonto non faccio che respirare aria di mosto. In fondo però tutto va bene. A guardarsi indietro, solo un anno fa stavo molto peggio di adesso. Non dovrei nemmeno lamentarmi. Qualcuno potrebbe anche arrivare a pensare che lo faccio per ottenere in cambio qualcosa, un po’ come i bambini che frignano perseguendo il loro scopo.
E infatti, il mio buon amico Martino, che ha fatto? Come ha visto che cominciavo a fare il bambino lunatico e un po’ troppo erratico, ha preso e, per infondermi energia, mi ha regalato l'intera discografia di Bruce Springsteen, che finora avevo sempre snobbato per quella menata che è un po’ troppo “americano”. E devo dire che ci sono cascato di nuovo. Nel senso che, almeno il primo Springsteen (il classico 1975-87, da Born to run a Tunnel of Love, e con una strizzata d’occhio a Lucky Town del ’92) mi piace molto, anzi moltissimo. Come ho fatto a perdermelo per tutto questo tempo non lo so. Bruce Springsteen è un grande, e anche se voi ora mi direte “sai che bella scoperta” io ve lo dico uguale per lanciare questa semplice e fondamentale verità al mondo, e cioè: non è mai troppo tardi. Ci vuole solo un pizzico di fiducia e la musica giusta per darsi la carica.
Ascolto musica ad alto volume in questo autunno malinconico, Neil Young pre-grunge di fine ’80 inizi ’90 e ovviamente il Boss. Con degli amici stiamo anche organizzando un concerto per domani sera: Steve Potts trio. Steve Potts è un sassofonista americano, nato nel 1943, molto nero e molto cazzuto, che ha studiato con Eric Dolphy e, fra i tanti, ha suonato con John Coltrane ed Herbie Hancock, beato lui.
Lavoro senza sosta al giornale. Nelle pause da lavoro sogno una rivista tutta mia che raccolga esclusivamente racconti di viaggio. Qualcosa di molto americano con una grafica elegante e rigorosa, belle foto grandi a mezza pagina e in bianco e nero e i testi a fronte in lingua originale. Ce l’ho tutta in testa e se non le ho dato ancora forma è solo perché mi manca il nome. Io credo molto nei guizzi d’illuminazione per queste cose, nei colpi improvvisi di genio. Perciò aspetto il momento ma ancora non mi è venuto niente di buono.
Altro progetto: scrivere un romanzo. So già che parlerà di un ragazzino che ha la barba bianca, ho in mente l’idea ma sto ancora cercando il modo di svilupparla al meglio. Amanda mi ha detto che già qualcuno ha usato un’idea simile alcuni anni fa per un film con protagonista un bambino coi capelli verdi. Non che questo mi preoccupi troppo. Alla fine non è il tema a fare la differenza fra le storie, ma il modo in cui lo svolgi. È una questione di stile.
Ho un solo problema adesso, ed è il rumore intorno. C’è troppo rumore dove vivo e per scrivere serve silenzio e concentrazione, lo sanno tutti. Devi poter ascoltare le tue idee. Non come qui che è un continuo correre di macchine e vociare e lo scavatore sempre acceso dal cantiere di fronte. Così, se qualcuno vuole fare un atto de mecenatismo puro e disinteressato, può prendere e invitarmi a casa sua per un mesetto circa, il tempo di buttare già la prima bozza (la più dura) e poi gli prometto che gli dedico il mio libro. A me pare uno scambio equo. Cos’altro si può volere di più dalla vita che una dedica su un libro?