martedì 24 maggio 2011

due o tre cose che so di dylan (di patti smith)

Quelli della mia generazione potrebbero tracciare con le parole di Bob Dylan il diagramma della loro vita. È stato il nostro portavoce, la nostra musa. Ha espresso il nostro sdegno, la confusione e il desiderio. Il respiro della sua opera è così ampio che ha dato voce non soltanto a coloro che sono consapevoli della realtà sociale ma anche ai disadattati della società. Era ancora ragazzo quando ha fatto sapere al mondo la sua risposta alla guerra, all'atomica e alla distruzione dell'ambiente. Ha sostenuto attivamente il movimento per i Diritti civili e risvegliato in molti il bisogno di rivolta sociale e politica. C’è riuscito usando delle canzoni. Opere durature, magistrali come The Lonesome Death of Hattie Carroll, lt’s Alright Ma e A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Canti dell’innocenza e dell’esperienza, per dirla con William Blake. Uno squillante appello al cambiamento. Avevano in sé il cambiamento. È impensabile l'idea di passare attraverso la vita senza quelle canzoni come fondale sonoro. Quale canzone è più adatta ai tempi che corrono di Masters of War, una canzone scritta in risposta ai test nucleari e alla forza militare? Mentre i nostri padri lottavano per la fine della guerra, l’uomo progettava l’atomica. Come voler radicare il dissenso tra l’uomo e la natura. Tra l'uomo e il suo Dio. Questo fa pensare a una semplice verità su Bob Dylan. Anche se aveva l’aria di un ragazzo irrequieto, sradicato e scostante, i suoi stivali non hanno mai battuto strade senza Dio. Non ha mai ignorato la sua coscienza. S’è addossato tante responsabilità quante ne ha scansate. Era un giovane energico e ambizioso. Sembrava che avesse fretta di attraversare l'esistenza, come se la sua salvezza fosse in bilico. Invece è ancora tra noi. Un uomo di principio e di rivolta. Quelli che hanno seguito la strada di Bob Dylan con il cuore aperto sono stati ben ricompensati. Come Pablo Picasso, Dylan ha cambiato pelle molte volte, e molte volte ha variato i colori della sua esistenza. È stato un artista indiscreto e famelico. Ha fatto sua l’influenza dei beat, della Bibbia e del blues e l’ha risputata come una mamma uccello ai suoi piccoli. Col tempo, il cerchio della vita mi ha portato dal conoscerlo astrattamente attraverso le sue canzoni fino a cantare in concerto al suo fianco. La canzone era Dark Eyes. È stato un evento emozionante dividere il microfono con lui, ma alla fine l’esperienza è stata trascesa dalla bellezza e dalla forza della canzone in sé. Quando è sbocciato il suo lato elettrico ci ha regalato Highway 61 costruendo un ponte tra la poesia e il rock’n’roll. Da innamorato ci ha dato canzoni con l’atmosfera sacrale di Sad Eyed Lady of the Lowlands. In un momento di grande introspezione ci ha fatto dono delle canzoni su John Wesley Harding. Non ha mai esitato nel darci il libretto d’opera della sua esistenza. Parole sgorgate magicamente da vene d’argento – senza sforzo da giovane e con più travaglio in età matura. Ha errato di città e in città, di mondo in mondo, attraverso due secoli, come un menestrello benigno, e con i suoi molti compari, un medicine show con personaggi bizzarri e una vibrante miscela di medicina buona, cibo per la mente e intrattenimento per famiglie. Ha capito che le canzoni sono in grado di incitare ed eccitare, ma anche di aggregare le persone, e possiedono un potere taumaturgico. È stato sovversivo, spirituale, ma senza mai perdere il senso dell'umorismo. Ha fatto il suo patto con l’alto potere. Il potere del bene. È un gentiluomo che tiene sempre nascosti i suoi segreti nelle maniche. Sa bene quanti errori ha fatto come uomo o come musicista e si è sottomesso alla penitenza della strada, cantando le sue canzoni. Perché alla fine, questo è ciò che sono. Sono le canzoni di Bob Dylan, alcune con le piume strappate al vento, la miniera del senso comune, e alcune dal pozzo del suo io. Un artista ci consegna il corpo della sua opera. Ecco il suo corpo. Parola per parola.
(Traduzione di Valentina Pigmei)




Talvolta, pensandoti, mi chiedo quanta fame di vita possa avere ancora un uomo che di vite ne ha vissute così tante. Ma immagino che la risposta vada presa come viene, come cambia il vento. Se muti sempre pelle, muti umore, un attimo vorrai sentirti eterno e appena dopo non speri di durare più dell’attimo, del tuono. Talvolta mi stupisco che tu sia ancora qui, ironico, misterioso, il perfetto trovatore. E ringrazio la mia buona stella per averti incontrato al momento giusto, per essere stato pronto ad ascoltarti quando più il mio cuore aveva bisogno di aprirsi alla tua musica. Alla tua voce di ferro e fuoco. Dovunque tu sia, dovunque tu sia diretto, auguri Bob, vecchio mio.
Tuo, A. Lillo.

venerdì 20 maggio 2011

la paga del sabato

Leggo La paga del sabato, primo romanzo in assoluto scritto da Beppe Fenoglio, inviato a Einaudi nel 1950 e rifiutato da Elio Vittorini perché ritenuto un “cartonaccio cinematografico” senza rimedio, e nonostante le resistenze di Calvino, che invece lo apprezzava, pur ammettendone i difetti.
Ecco, lo leggo e penso che, secondo me, è una buona opera prima, un romanzo bello e teso, un noir ambientato nelle Langhe sorretto da una scrittura solida e asciutta, che scorre perfetto fino al suo tragico finale, come un meccanismo a orologeria. Non il suo capolavoro ma meritevole di una pubblicazione sì. Penso anche che, probabilmente, questa è la mia opinione a posteriori, ma sono pure convinto che Fenoglio non fu mai pienamente compreso dai suoi contemporanei, neppure da Calvino che gli fu amico.
I tre libri che riuscì a pubblicare in vita furono accolti spesso e volentieri da stroncature od opinioni di sufficienza dalla critica (straordinario il caso del “rimprovero” di Vittorini pubblicato come quarta di copertina a La malora, suo secondo libro). Le case editrici invece di incoraggiarlo lo influenzarono negativamente per i propri dubbi in merito alla bontà delle sue sperimentazioni (tanto da condizionarlo a non terminare mai la seconda e fondamentale parte de Il partigiano Johnny). E in effetti la maggior parte del suo lavoro è venuta alla luce postuma, spesso frammentaria, imponendosi all’attenzione del pubblico lentamente, per il suo solo valore letterario.
Tanto che Fenoglio è considerato da molti un esempio di scrittore puro, dedito unicamente alla sua scrittura. Cosa fondamentalmente vera, se non fosse che pure Fenoglio, come ogni uomo, avrebbe desiderato talvolta una conferma, un riconoscimento del suo lavoro artistico, che di rado gli arrivò. E in questo Fenoglio, oggi considerato un padre simbolico da molti giovani scrittori che si ritrovano soli contro un mercato talmente oscuro, ingordo e ingombrante da paragonarsi a un mostro mitologico, affamato di vittime sacrificate al suo altare, fu uno sconfitto. Di una dignità enorme, unica, ma sconfitto.
Penso a Fenoglio, sconfitto e incompreso dalla critica e dai suoi stessi colleghi, mentre leggo il suo primo romanzo, pubblicato nel 1969, sei anni dopo la sua morte. E me lo immagino giovane e pieno di sogni e speranze, apprestarsi a metterlo giù, su carta, e lavorarci di lima e senza sosta fino alla perfezione. E penso anche a Vittorini, che nel suo rigore, se vedesse quello che è diventato oggi il mercato editoriale, dove la letteratura e la bella scrittura sono bandite, o guardate con sospetto, a meno che non abbiano in sé quel po’ di “cartonaccio cinematografico” necessario a ricavarne poi un film per la stagione successiva, ecco, credo davvero che si rivolterebbe nella tomba, disgustato.

domenica 8 maggio 2011

la casa di mario

Hanno riaperto la casa di Mario. Passando stasera sotto il suo balcone, ho visto le persiane aperte ed un bambino ed una voce, da dentro, in un bell’albanese squillante lo richiamava per la cena.
Mario se ne è andato chissà dove un bel mattino di due anni fa, e di lui non si è saputo più nulla se non per un cartello affisso sulla porta per mesi, sotto il battente antico, con su scritto “vendesi”. Di lui non restavano che i muri della casa ed ora le risate di un bambino che della sua vita nulla sa, se non per la curiosità suscitata forse da qualche scatolone dimenticato in soffitta.
Era così tanto che la vedevo chiusa quella porta che mi era quasi parso di perdere anch’io ogni ricordo, andato con la vista dello scorcio di muro che dal basso notavo attraverso le persiane, quando passavo per strada e notavo l’angolo di volta dalla finestra e il lampadario acceso oppure le scale, se la porta era aperta sulla strada, come ogni volta che rientrando dal mercato Mario portava su la spesa in più viaggi.
Certo è strano sentire tanta nostalgia per una casa in cui in fondo non sono mai entrato, ma è che a volte la vita si dipana pure in questi particolari fuggevoli, a volte irrisori, che nulla cambiano del destino di un uomo, appena un briciolo di prospettiva. Io di Mario sapevo così poco, se non per le sue storie d’infanzia o per i racconti commossi che ci faceva dei suoi genitori, vittime coraggiose del fascismo, e soprattutto della madre, che in quella casa ci è morta.
Sapere che dopo tanto dolore la vita continua e si dimentica di noi, del dolore sedimentato sui muri, con un po’ d’acqua e candeggina, un po’ mi terrorizza e un poco mi conforta, in parti uguali.