domenica 29 aprile 2012

la severino e il pensiero filtrato

Estratto di un articolo dal Corriere della Sera.it del 26 aprile, a proposito di alcune dichiarazioni di Paola Severino, ministro della Giustizia, sulla necessità di un “filtro” sulle intercettazioni telefoniche, filtro che poi, per estensione, dovrebbe coinvolgere anche i blog:

“I blog possono fare più danni dei giornali”, ha detto Severino, accennando a una regolamentazione in sede di Unione europea per evitare ch i provider si possano trasferire in Paesi dove le maglie della legge sono più larghe. “Il cittadino ha il diritto di interloquire con un altro. Ma deve seguire le regole”, ha detto il ministro creando non poco scompiglio nel mondo digitale dove i tweet sono subito impazziti. “Scrivere su un blog non autorizza a scrivere qualunque cosa, soprattutto se si sta trattando di diritti di altri. I blog hanno capacità di diffondere pensiero ma questo non deve trasformarsi in libertà di arbitrio”, ha ripetuto Severino che appunto prevede presto una forma di regolamentazione. Anche se sarà “difficile pensare a un obbligo di rettifica nei blog”. E conclude con un monito: “Sappiate che quello che voi fate ad altri potrà essere fatto a voi. Cominciate ad autoregolamentarvi”.

A parte il fatto che l’intero pezzo giornalistico (che vi risparmio) è scritto coi piedi, il passaggio che mi lascia maggiormente perplesso è quello in rosso. È, oggettivamente, una cazzata talmente macroscopica che non saprei nemmeno da dove cominciare a risponderle. Così ve la segnalo e lascio al vostro arbitrio la libertà di costruirci su un vostro pensiero, prima che gli mettano il filtro.

venerdì 20 aprile 2012

che abbiamo noi per salvarci...

Che abbiamo noi per salvarci
se non questi spazi angolari
queste bolle del pensiero
in cui nasconderci e sognare
un passato illusorio tutto d’oro
in cui negare a tratti l’esistenza
che ci vuole uccelli di passo o da voliera
né ci chiede mai venire a patti
se anche l’aria per volare è troppo densa
carica com’è di polveri industriali.

venerdì 13 aprile 2012

mandorle e fagioli

Mio fratello lavora in una piccola azienda che produce dolci, taralli, biscotti, in quelle piccole confezioni a colori che trovate negli ipermercati a buon prezzo e con un sapore decente. L’azienda è in Puglia ma molti dei loro prodotti finiscono nelle grandi catene di negozi del Nord, e io mi immagino sempre questi enormi camion che ogni mattina prelevano dalla sua azienda enormi scatoloni carichi di biscotti e attraversano l’Italia per rifornire quei negozi.
La settimana scorsa pranzavo con mio fratello e lui mi diceva che la sua azienda stava modificando alcune cose nella produzione dei biscotti, su indicazione degli ipermercati che acquistavano la roba per rivenderla al dettaglio. La produzione dei biscotti al limone ad esempio, anche se buonissimi, è stata sospesa perché costavano troppo e non li acquistava nessuno. Mentre quella dei biscotti alle mandorle continuava, ma visto che usare le mandorle comportava un rincaro eccessivo sul prezzo finale dei biscotti si è (tassativamente) richiesto all’azienda di produrre i biscotti con ingredienti che sostituissero le mandorle ma costassero meno, come essenze oppure farina di fagioli con cui si otteneva un sapore simile.
Io ho guardato mio fratello e gli ho chiesto: “Non capisco. Perché produrre ancora i biscotti alle mandorle se costano troppo? Perché non fare altro invece di propinare loro dei finti biscotti alle mandorle che però sono dei biscotti ai fagioli?”
Mio fratello ha sollevato le spalle come a dire che non ci poteva fare nulla e mi ha risposto: “Li vogliono così e noi glieli diamo.”
Ecco, sapevo che c’era un qualche significato in questa storia ma non l’ho capito subito. Mi è venuto in mente stamattina, mentre masticavo anch’io un biscotto e all’improvviso mi sono chiesto se fosse o no ai fagioli. E il significato, per quanto semplice, è questo: e cioè che la vera portata della crisi che stiamo vivendo, ciò che la rende devastante, e rivelatrice di ciò che siamo diventati come popolo, non è il fatto che siamo o no più poveri o che qualcuno ci stia derubando, ma che non riusciamo ad accettarla al punto che preferiamo mangiare dei biscotti taroccati ai fagioli piuttosto che ammettere che dovremmo passare ai frollini di seconda scelta.

lunedì 9 aprile 2012

in memoria di gassman e di un'altra rai



Ha proprio ragione Citati quando dice che negli ultimi vent’anni si è diffusa in Italia una velenosa mediocrità e forse è meglio non leggerli i libri che leggerne di mediocri. La mediocrità è ormai cancerosa e forse comincia proprio dalla tv, come ci avvertiva allarmato Pasolini. Dico forse perché non sempre ne sono convinto. Ieri, ad esempio, cambiando su Rai Uno nel tardo pomeriggio, ho ritrovato Lorella Cuccarini che presentava Bobby Solo e Mal che all’infinito riciclavano se stessi cantando Tutti Frutti. Era tutto talmente vecchio, stanco, già visto, persino i loro ciuffi gelatinati, che non ci credevano più nemmeno loro, e infatti Bobby Solo a un certo punto ha dimenticato le parole di quello che canta da più di cinquant’anni. Ecco, li ho guardati per cinque minuti, poi ho spento la tv, ho ripensato a Pasolini e cercandolo sulla rete per un po’ di conforto ho ritrovato Gassman, e questo video in particolare.
Era il 1996, e Gassman portava sulla Rai (apriti Cielo!) Cammin Leggendo, un bellissimo programma che si occupava di rivisitare una serie di città italiane attraverso la lettura di brani poetici o di viaggio, di scrittori che ci avevano vissuto. Ovviamente la Rai prima disse sì poi preoccupata per il gradimento da parte del pubblico di una trasmissione eccessivamente colta fece un po’ di casini sugli orari, tanto che alla fine Gassman ebbe a commentare così: “Questa tv fa male come la mucca pazza!” Ma erano gli anni ’90 e il cancro si stava già diffondendo.
In questa puntata particolare Gassman si occupava di Roma e recitava una poesia di Pasolini, ancora considerato un personaggio scomodo. Gassman evidentemente se ne frega e con grandissimo rispetto per il poeta legge i suoi versi e non solo legge, ti fa capire tutto, parola per parola, con semplicità e sentimento. Poi, certo, possiamo discutere di impostazione ottocentesca o meno del suo recitare ma almeno lui lo faceva, e lo faceva sulla Rai, in quello che è vero servizio pubblico, altro che Porta a Porta, L’isola dei famosi o Ti lascio una canzone (bleah!). Roba dell’altro mondo insomma, appunto del nostro passato remoto.
Ecco ieri, giorno di Pasqua e di abituale indigestione da festa, ho ritrovato Gassman con la barba bianca da saggio come lo ricordo da quand’ero bambino, che si sforzava di farmi capire Pasolini e mi sono sentito derubato e davvero, con o senza Monti, più povero.

domenica 8 aprile 2012

segnalazione

Come regalo di Pasqua il poeta Vito Russo ha scritto una recensione del mio primo libro sul blog del poeta Antonio Spagnuolo. Insomma Pasqua poetica la mia. O, se preferite, al cioccolato. Qui il link al blog di Spagnuolo. E qui un bel pezzo di musica da ascoltare mentre leggete.



Alcuni libri maturano col tempo nella percezione del lettore. Capita anche quando con l’autore, tra i saliscendi della Valle d’Itria, si è percorso un bel pezzo di strada, con la lentezza che la poesia e l’amicizia meritano.
Ho riletto di recente “L’innocenza del male” di Antonio Lillo, edito da Lietocolle nel 2009.
Lillo è un poeta non laureato, per dirla alla Montale, ma è anche un poeta che utilizza i mezzi espressivi dei maestri del secondo Novecento con impeccabile padronanza. Operazione condotta con consapevolezza e sfacciataggine, come quando ad esempio Lillo rivela il rapporto con la poetica di Vittorio Sereni, soprattutto. Ma sono tanti i contatti “nobili”, espliciti e non, come con Pasolini, Fortini, Penna, Pagliarani, lo stesso Montale e la cosiddetta Linea Lombarda.
Nel solco di questa tradizione, accade che i sentimenti, nominati, prendano invece la forma immaginifica del verso, come la sofferenza, che, “caricandosi, s’aggruma a tappo in gola”. È come se il reale, attraverso l’azione, e, soprattutto, attraverso la parola, e grazie alla parola, prenda realmente corpo, al punto da pensare che prima della parola ci sia solo il nulla. Così l’amore “si / presenta tuo durante il bacio / in ascensore. Poi sparisce all’ora di / sciacquare / i peli caduti sul fondo della doccia”. Pare essere questa la conclusione umana e poetica del poeta di Locorotondo: “E se / la poesia la politica il semplice fare / non fossero altro che un esserci in fondo?”
È il movimento delle cose, degli oggetti, degli animali prima che delle persone, l’azione insomma, che rivela l’esistenza, come il semplice incresparsi della carta, o la fuga terribile di un ratto che scava gallerie dentro il corpo, e al poeta non resta che cercare di lasciare un’impronta nell’altro. In fondo, l’azione poetica, atto solitario, rivive solo nel momento in cui stabilisce un contatto con l’altro. Lillo è infatti anche un poeta narcisista, che si compiace del suo modus vivendi et scribendi, ma al tempo stesso ha l’umiltà di non prendersi troppo sul serio, come quando semplicemente scrive “Forse mi do troppa importanza”. Se il soggetto dominante infatti è l’io, non mancano molte forme impersonali, e soprattutto, spesso sono gli animali (ratti, cani, gatti, anitre, canarini, pesci), le piante, o altre volte anonimi vicini di casa, o pescatori, o clandestini, a occupare cinematograficamente la scena poetica.
Sul piano del predicato invece, è frequente l’uso dell’imperfetto o del passato remoto, ma pare trattarsi solo di un espediente stilistico o retorico, perché domina appunto l’azione, lenta, lentissima, ma continua, sulla stasi, quasi che il poeta viva un eterno presente, tempo per attualizzare il passato e immaginare il dispiegarsi del futuro. Lo spazio in cui il fare, la vita, trionfano, è la provincia, con la sua incantevole distanza e indifferenza dal e al potere, e questo spiega anche l’uso frammentario di un dialetto che dà voce a personaggi buffi ed eroici, come nel cinema felliniano: un poeta che suona nella banda ai funerali, o il soggetto stesso che si ritrova chiuso in un portone assolato ad aspettare un amico e il mondo intero.
“L’innocenza del male” è un libro che, nella sua ricercata disomogeneità, si rivela in continuo movimento, in costante tensione estetica e umana, a significare un crescente, incontenibile, innamoramento per la vita: “balliamo sgraziati / da lento fuoco / abbracciati”.
Ma se qualcuno chiedesse all’autore il motivo per cui scrive, Lillo, col suo cinico romanticismo, risponderebbe che conta solo di conquistare qualche bella ragazza, magari citando Simone Cattaneo.

(Vito Russo)