sabato 28 luglio 2012

l'appartamento


L’appartamento dove ho vissuto gran parte della mia vita sarà evacuato.
Ora è privo di tutto. L’ancora è levata – anche se ancora vi regna il lutto, è l’appartamento più leggero della città. La verità non ha bisogno di mobili. Ho fatto un giro dentro la vita e sono tornato al punto di partenza: una stanza svuotata. Le cose di cui sono stato testimone appaiono sulle pareti come pitture egiziane, scene di una camera funeraria. Ma si vanno cancellando via via: la luce è troppo forte. Le finestre si sono allargate. L’appartamento vuoto è un grande binocolo puntato contro il cielo. C’è silenzio come in un rito quacchero. Si sentono solo le colombe dei cortili, il loro tubare.

(Tomas Tranströmer)

mercoledì 25 luglio 2012

amore in un cinema

Eppure a modo mio ti ho amata
quel giorno inginocchiato a te di fronte
in un cinema buio e semivuoto
che ti avrei baciato occhiali e seni
il sorriso imbarazzato e complice
di chi vive per un’ora un’altra vita.
Gli angeli di là ci ricordavano
spiando dallo schermo che l’amore
è tutto della giovinezza il fuoco.
Ma il tempo ha l’ultima parola
per dispiegare incendi o scrosci.
Ti ho persa intorno a una fontana
ma dov’è già finito quell’amore
del primo pomeriggio dov’è andato?

sabato 21 luglio 2012

lettera dal tavolo del tè

Ma alla fine che fine avete fatto?
Mi avete tutti lasciato solo.
Spero comunque di vedervi presto
lepre marzolina, moscardino,
amici delle sere senza uscita.
Mai lucido, mai brillo, ma seduto
vi aspetto qui senza più ansia nella voce.
Vi amo. Vostro, Cappellaio Matto.

venerdì 20 luglio 2012

vècia moglie

La xe in leto, nel scuro, svea un poco;
e la senti el respiro del marì
che queto dormi, vècio anca lui ‘desso.
E la pensa: xe bel sintirse arente
‘sto respiro de lui, sintir nel scuro
che’el xe là, no èsser soli ne la vita.
La pensa: el scuro fa paura; forsi
parché morir xe andar ‘n un grando scuro.
‘Sto qua la pensa; e la scolta quel quieto
respiro ancora, e no’ la ga paura
nò del scuro, nò de la vita, gnanca
no del morir, quel che a tuti ghe ‘riva.

(Virgilio Giotti)

trad. È a letto, nel buio, un poco sveglia; / e sente il respiro del marito / che dorme quieto, vecchio anche lui adesso. / E pensa: è bello sentirsi accanto / questo respiro di lui, sentir nel buio / che lui è là, non essere soli nella vita. / Pensa: il buio fa paura; forse / perché morire è andare in un grande buio. / Questo pensa; e ascolta quel quieto / respiro ancora, e non ha paura / né del buio, né della vita; neppure / no della morte, quella che a tutti arriva.

giovedì 19 luglio 2012

l'amore non è una cosa seria

MA PREZIOSA

Non stiamo forse parlando?, mi chiede
ma davanti a una banca.
È perché son preziosa!
Ma non toccarmi, o mi chiudo.


MA RISIBILE

Mi sei cara quando ridi
mi sei cura se ti penso
piango e rido insieme, non lo vedi?

martedì 17 luglio 2012

mi commuovono i tuoi polsi...

Mi commuovono i tuoi polsi
le tue caviglie bianche le dita
sottili e lunghe come trampoli,
tutto esprime di te leggerezza e distanza.

sabato 14 luglio 2012

pino & gaber

amicizia e fame


“L’amicizia non si mangia.”
“L’amicizia no ma l’amico , se uno ha molta fame.”

(Da storie dell’anno Mille, di Luigi Malerba e Tonino Guerra)

licini-morandi


Come ogni studente d’arte, sono cresciuto guardando e ammirando opere di pittura, che per secoli è stata la massima espressione dell’idea di creatività, tanto che ancora oggi se dici “arte”, fra le varie sue diramazioni, pensi sempre, per prima cosa, alla pittura.
Nella mia vita ho amato e appreso da innumerevoli pittori, senza distinzioni di tempo o luogo, e stare qui a enumerarli tutti sarebbe inutile, lunghissimo (e noiosissimo), e poi sarei di sicuro ingiusto, perché ne salterei sempre qualcuno. Se però dovessi indicarne qualcuno in particolare, italiano, che mi abbia particolarmente affascinato o influenzato, per la sua poesia o per una particolare affinità col mio mondo, sulle prime mi vengono in mente due nomi.
Il primo è quello di Giorgio Morandi, pittore di nature morte, di attimi sospesi e di silenzi: e se c’è pittore metafisico in Italia, più ancora di De Chirico, quello è proprio Morandi. L’altro, ancora più scostante del primo, tanto da risultare a molti semisconosciuto, è Osvaldo Licini.
Licini e Morandi erano amici, fin dai tempi dell’accademia a Bologna, e poi per tutta la loro vita. Per certi versi si assomigliavano: partivano entrambi dalla poesia, e amavano gli stessi poeti, Leopardi e Campana; erano due solitari, estranei ai salotti bene dell’arte, preferivano restarsene per conto loro, chiudersi in lunghi silenzi pensierosi, in cui l’unica cosa che contava era la loro arte, la loro necessità creativa. Eppure, allo stesso tempo, erano del tutto opposti per scelte, per poetica e per temperamento, tanto che spesso si ritrovavano a discutere animatamente sul senso della loro arte, che poi, per loro, era senso della vita. La prima grande rottura avvenne nel 1939, quando Licini, in piena fase astrattista, definì l’amico “campione della mediocrazia artistica italiana”, giudizio a cui il compagno rispose con un ostinato mutismo, protrattosi fin dopo la guerra.
L’anno passato, a Fermo, una mostra dal titolo quanto mai azzeccato: “Divergenze// Parallele”, a cura di Marilena Pasquali e Daniela Simoni, ha celebrato quell’amicizia.


Volendo sintetizzare al massimo e con una immagine, la differenza maggiore fra i due stava in questo: data loro una stanza chiusa, con un cavalletto su cui lavorare, tanto l’uno (Morandi) guardava all’interno della stanza, ai suoi angoli in ombra, negli spazi fra gli oggetti posati sul tavolo, dove in genere si annidano le trame sottili e brillanti delle ragnatele, quanto l’altro (Licini) guardava all’esterno, allo spazio sconfinato fuori dalla sua finestra, oppure immaginati oltre il muro, verso il cielo luminoso dietro gli alberi in fondo al campo, e ancora più su, verso lo spazio infinito dove i sognatori costruiscono, senz’alcuna fondamenta, i propri castelli in aria.
Diverso era anche il loro codice espressivo. L’uno si aggrappava quasi con ostinazione alle sue tre o quattro scatole, o vasi di fiori, che reinventava di continuo in colori tenui e caldi, oppure brillanti, comunque mai dissonanti, ma sempre accostati con occhio “musicale”, in cui l’uno serve a far risuonare l’altro in un minimalismo tutto sonoro, la pennellata più o meno pastosa, e quasi acquerellata verso la fine, quando decise di aprirsi finalmente in paesaggi al limite dell’informale.
L’altro reinventando di continuo il proprio mondo, incarnandolo di continuo in oggetti, luoghi e personaggi fantastici (le città celesti, gli olandesi volanti, le Amalassunte, gli angeli), organizzati in serie poetiche, evocatrici, il cui comune denominatore era il colore pastoso e vivace, spesso luminosissimo, la pennellata irrequieta, piena di urgenza espressiva, la linea rapida ma elegante. Si diceva un astrattista Licini, ma era qualcosa di più e di meno di un astrattista, meno rigido nell’esposizione rigorosa della propria idea e assai più lirico.


Entrambi rigorosissimi ma in maniera diversa. L’uno, Morandi, più stabile, inflessibile, a suo modo sperimentatore indefesso, produceva senza pace, nel silenzio del suo studio, a un ritmo lento ma costante. Non si muoveva quasi mai di casa. “Ebbene, non verrai a trovarci questo anno? Quando ti pare, sarai sempre benvenuto”, scriveva Licini all’amico dal suo isolamento a Monte Vidon Corrado, nelle Marche, di cui nel dopoguerra divenne sindaco, né perdeva occasione per incontrare Morandi ogni volta che si trovava a passare per Bologna. Non c’è testimonianza, però, di alcuna visita di Morandi all’amico.
La pittura in sé era l’unico scopo della sua vita. L’opera lasciataci, infatti, è enorme e mai, pur nel ripetersi infinito dei soggetti, uguale a se stessa: la testimonianza di una fede senza cedimenti, quasi rinascimentale, nei mezzi dell’arte.
L’altro, Licini, più irrequieto, all’apparenza contradditorio, oscillava in continuazione fra la ricerca modernista, di un ordine e di una disciplina che sentiva necessari a lui come ai tempi, e la ricerca quasi selvaggia, di stampo folcloristico, in cui si lasciava andare, senza barriere, alle visioni del suo mondo interiore, fra impennate celesti e richiami infernali.
Tra un flusso di furia creativa e l’altro, si concedeva lunghe pause, in cui metteva da parte il pennello per riflettere, studiare, viaggiare. Dopo un lungo silenzio, spesso Licini buttava via tutto, distruggeva e ricominciava. Talvolta, incurante, rifaceva sulle tele già dipinte, perché per lui l’arte aveva valore in quanto mezzo, e non fine, verso il chiarimento dei dubbi che minavano l’uomo, nell’incessante ricerca di sé.

oltre l'arcobaleno

1960. Chet Baker, in visita in Italia, viene trovato svenuto, in stato di overdose, nei bagni di una stazione di servizio a Lucca. Viene condannato a 16 mesi di carcere.
All’uscita, proprio in Italia, grazie all’interessamento di alcuni amici musicisti, riesce a registrare l’album del suo ritorno, Chet is Back!, uno dei migliori della sua carriera ma, nonostante il titolo, l’ultimo del suo periodo d’oro.
Comincerà adesso il periodo più maledetto della sua vita, il più irrequieto e disordinato, senza casa, senza meta, perennemente in giro per l’Europa e altalenante persino nell’arte, fra robaccia insulsa e commerciale, necessaria a far soldi per nutrire la scimmia, e improvvise impennate di genio, solo per se stesso.

mercoledì 11 luglio 2012

la sveglia

Un povero mercante arabo aveva da vendere soltanto una sveglia che teneva in mostra sopra un tappeto polveroso. Per diversi giorni si accorse che una vecchia si interessava alla sveglia. Era una beduina appartenente a una di quelle tribù che si muovono col vento.
“La vuoi comprare?” le chiese un giorno.
“Quanto costa?”
“Poco. Ma non so se la vendo. Se scompare anche lei non ho più un lavoro.”
“E allora perché la tieni in mostra?”
“Perché mi dà l’impressione di vivere. E tu perché la vuoi? Non vedi che mancano le lancette?”
“Fa tic-tac?” chiese la vecchia.
Il mercante caricò la sveglia che mandò un tic-tac sonoro e metallico. E la vecchia chiuse gli occhi e capì che nel buio della notte poteva sembrare un altro cuore accanto al suo.

(Tonino Guerra, da Il polverone)

domenica 8 luglio 2012

tutte le sedie erano sempre occupate

Dicono di lui ch’era un gigante, e che visse fino ai quaranta con sua madre, mai procacciandosi un lavoro serio (fregandosene anzi) ma scrivendo giorno per giorno la sua grandissima opera d’arte, impegnandosi solo per quello, musica bella e perfetta, ai più incomprensibile, che si levava libera, negli anni della sua giovinezza, dalla finestra della sua stanza verso i bar del centro, giù per la scala antincendio.
Quando sua moglie accettò, firmando puntualmente il contratto, di prendersi cura di lui, lo mantenne per anni lavorando da sguattera (tale e quale a sua madre) e inventandosi poi, perché non era da meno in fatto di genio, un nuovo buffo lavoro, producendo spremute in cucina. A volte lui si nascondeva nel rumore di tornado delle lame d’acciaio dei frullatori, per non disperdere idee in borbottii-opinione sul tempo attuale.
Il pianoforte andava dalla cucina al salotto attraverso la porta, fra bottiglie, piatti lucidi e pentole di latta. Lei lo registrava quando componeva e lui riconfermava, fiero, a ogni nuovo pezzo, l’eterno giuramento, in salute e malattia.
Raccontano come negli ultimi anni, non reggendo più il rumore per mancanza di forze e di concentrazione, non reggendo più le grida raggelate del sedano e limone, della carota frantumata dalle lame, chiese adozione a una contessa russa, e fu portato al riparo nel silenzio della sua steppa senza uscita, dove muto si aggirava fra le stanze del castello, quasi un nuovo labirinto, quasi un grembo, e senza più toccare i tasti del suo piano, che sapevano ormai di pane morbido ammuffito.

mercoledì 4 luglio 2012

a che serve lo stato?

E come volevasi dimostrare, spente le telecamere, vengono fuori le magagne dello Stato. Il servizio sanitario della Regione Puglia non coprirà le spese necessarie alle cure delle ragazze coinvolte nell’attentato alla scuola Morvillo-Falcone di Brindisi. Questo perché tali cure consisterebbero in costose pomate antiustioni che, essendo inserite nell’elenco dei trattamenti estetici e non curativi, non vengono ritenute, a norma di legge, strettamente necessarie.
Le cinque ragazze hanno tutte ustioni fra il 25% e il 60% del corpo, alcune anche in viso. Forse alla regione dimenticano che un’ustione che deturpa il corpo ha comunque una sua importanza decisiva nella vita sociale di una persona, ancora di più se si tratta di un’adolescente che sta ancora formando la sua personalità.
Tant’è, si apprende oggi che le famiglie delle giovani, non certo abbienti, pagano di tasca loro parte delle creme necessarie, creme che costano fra i 50 e i 100 euro. Alcuni parenti e amici si sono autotassati, ma finora, l’unico aiuto pubblico fornito loro sono stati i 1000 euro a ragazza messi a disposizione dal comune di Mesagne.
Ma lo Stato, che quel giorno era lì a piangere per loro, a marciare con la folla riunitasi spontaneamente e a invocare giustizia da un palco, lo Stato dov’è finito? E se anche c’è ma non può aiutarle (perché la burocrazia è tutto e non si può mai aggirare), allora a cosa diavolo serve?

martedì 3 luglio 2012

la vigna

Oggi mio nonno, in un attimo di memoria, mi ha rivelato che suo padre, dunque il mio bisnonno, è morto in casa, nella casa dov’era nato e intorno al cui universo si è svolta tutta la sua vita, e morendo ha chiesto scusa per i propri errori non al prete né a Dio, ma solamente ai suoi figli. È morto a 84 anni e in tutta la sua vita ha bestemmiato una sola volta, quando cioè mio padre, allora ragazzino, gli ha mozzato uno dei baffi mentre lo radeva, baffi che il bisnonno portava con orgoglio e un pizzico di vanità, alla moda dell’epoca, lunghissimi, imponenti. Basta così poco a rendermelo simpatico. Non ci resta nient’altro di lui, nemmeno una foto, solo qualche albero e la vigna piantata in campagna, quando ai braccianti venne concesso di prendersi un pezzetto di terra e coltivarlo.

domenica 1 luglio 2012

lettera a un editor


Egregio Editore,
anzi editor, perché credo che all’Editore questa cosa non arriverà mai, a meno che non si decida di farne dei soldi. Caro editor, allora – e sappiamo entrambi che una minuscola davanti al nome e una lettera mancante fanno bene la differenza, ci rendono più simili.
Caro editor, sono qui a proporti questa mia raccolta di racconti di cui forse, dopo tutti i manoscritti, gli strafalcioni incomprensibili, i capolavori incompresi, cinico e duro a tutto ciò che è scrittura come sarai diventato, non te ne fregherà nulla, ma l’indifferenza è reciproca perché per quanto mi riguarda, sei solo una sagoma sfocata dall’altra parte del foglio di carta, l’ombra cinese che mi divide dal mio sogno di pubblicare, sei il mio peggior nemico adesso, più di me stesso.
Caro editor, vorrei che ricordassi che dietro questa pagina di parole messe insieme c’è un uomo, proprio come te, non un povero fallito che ancora ci spera, un ridicolo frustrato senza speranza che aspetta la tua lettera per mesi, e sussulta ogni volta che il postino suona alla sua porta. Quest’uomo ha una sua dignità e una sua intelligenza. Ricordalo quando darai un’occhiata veloce alle prime cinque/sei pagine del manoscritto e lo cestinerai perché non lo troverai conforme a quelli che sono i tuoi standard, i tuoi scazzi, il tuo grado di concentrazione e i tuoi gusti letterari del momento. Sei deluso da quel che leggi? Trovi che non abbia quel ritmo necessario ad appassionare il lettore medio? Non farli diventare il mio problema. Sappiamo entrambi come funzionano certi meccanismi, siamo adulti, umani allo stesso modo e si sa che in questo tipo di affari la fortuna gioca la sua parte, spesso vale più del talento. Così non sottovalutarmi, e io non sottovaluterò te.
So già che non avrai tempo per rispondermi e forse nemmeno per rimandarmi indietro l’antipatico prestampato che la finirebbe di farmi soffrire. Fa nulla, mentre ti aspettavo sono diventato amico del postino, e ti dico che è una brava persona, una persona saggia, che pensa la vita in maniera completamente diversa da noi, meno basata sulle grandi visioni e più intenta a risparmiare energie mentre si muove di passo in passo verso la prossima porta. Vedi, per lui ogni passo ha la sua importanza, la sua economia, mentre noi ci affanniamo un po’ alla rinfusa, zigzagando fra le scartoffie, aspettando di spiccare il grande salto verso la storia. So che anche in questo mi assomigli, è inutile negarlo, chi vive di libri prima o poi ci affonda.
Così, forse, mi rifiuterai, mentre aspetti il manoscritto perfetto, cioè quello che ti scatenerà un brivido lungo la schiena e ti spingerà a volerci mettere le mani sopra, a contribuire all’opera che come un gommone ci trasporterà tutti, sani e salvi, dall’altra parte del mare.
Per giustificare questo tuo rifiuto – l’esperienza insegna – tirerai fuori alcune logiche considerazioni alle quali, però, vorrei opporre delle logiche risposte. Mi dirai, per prima cosa, che manca un filo rosso che tenga uniti i racconti, ma caro editor, io non faccio mai nulla a caso e non sempre quello che cerchi deve saltarti in faccia per segnalarti la sua presenza: talvolta serve più impegno di quel che sei disposto a metterci, ma se non vedi una cosa non significa che non ci sia. Mi dirai poi che c’è troppo autobiografismo, ma caro editor, i miei non sono racconti autobiografici, se lo sembrano è solo perché sono molto bravo a inventare. Ovviamente c’è sempre un pizzico di vissuto, in base al noto imperativo “scrivi solo di ciò che sai”, lo conosci, vero? Mi dirai infine, perché so le tue obiezioni a memoria, che nelle mie storie non succede mai nulla, non c’è “azione”, ma caro editor, io scrivo racconti, non sceneggiature per film, quelle le lascio a chi vuol far soldi e basta, quanto a me, sono ancora concentrato sul gommone, ricordi? E tu, da che parte stai?
È stato davvero piacevole, stavolta, per me, questo scambio di idee, in cui non mi sono dovuto trattenere per cercare di venderti il mio prodotto. Lo sai, è stato il postino a insegnarmelo, mi ha detto: “Che ti frega? Tanto se ti vogliono ti prendono lo stesso, almeno ti togli i sassi dalle scarpe!” Questi suoi piedi che ritornano, c’è da pensarci! Io ci penso almeno.
Tu, immagino, te ne stai lì nel tuo ufficio e non mi risponderai, forse non arriverai nemmeno in fondo a questa lettera, che senza accorgermene è diventata troppo lunga. Non hai più tempo da concedermi, lo so, devi cestinare ancora dieci manoscritti oggi, ma nel caso tu sia arrivato fin qui e ora stia per cestinare anche il mio, volevo dirti che ti auguro comunque una buona vita, dovunque tu sia e qualsiasi cosa tu stia facendo per tirare avanti la carretta.