domenica 9 settembre 2012

uomini e cani


Stalin, leggevo un po’ di tempo fa, non vedeva di buon occhio e anzi sconsigliava di coltivare amicizie. Questo perché, come sentimento di simpatia, affetto e dedizione disinteressata all’altro, l’amicizia poteva essere di intralcio all’amore assoluto per il Partito. Era, di base, un’idea talmente disumana, nel suo tentativo di creare uno stato di uomini soli e privi di conforto, se non nell’astratta idea di un mondo di uguali, che non meraviglia come poi il Comunismo russo sia crollato così rovinosamente, e in barba al suo falso mito di felicità.
Mi è tornato in mente l’altra sera, mentre passavo dietro l’ufficio postale, dove da un po’ di tempo si rifugiano di notte due randagi, di cui uno talmente vecchio e stanco da trascinarsi zoppicando, con estrema fatica, e ho notato nell’angolo fra i cespugli un piatto di pasta, messo lì per loro da qualche vicino.
L’affinità fra uomini e cani, in tempi di crisi, non è cosa nuova. Bulgakov, vittima della censura stalinista, scrisse a proposito un intenso romanzo chiamato Cuore di Cane. Negli anni ’80 Tom Waits, ispirandosi all’espressionismo tedesco, ha realizzato Rain Dogs, disco bello quanto stralunato, per descrivere la vacuità di un mondo sull’orlo del collasso. E Goya, all’apice di una sordità che rischiava di farlo impazzire mentre gli spalancava le porte di una comprensione universale del dolore, estremizzò questa fratellanza in un’opera disperatissima e minimale come El Perro, dipinta sulle pareti di casa sua, a Madrid. La testa di un cane che affonda oltre il fossato e nient’altro sopra che il vuoto.
Talvolta, mentre osservo gente molto più preparata di me abbaiare in tv per problemi che nel loro infinito ripetersi diventano astratti quanto l’aria, penso che di cani, soli o rabbiosi che siano, è pieno il mondo. Forse l’intelligenza li rende speciali, capaci di formulare pensieri, parole, e il dito opponibile, come ci insegnano i libri di scuola, ha dato loro la possibilità di creare tutte le meraviglie, più o meno evidenti, che ci vediamo intorno. Ma è nella pietà, nella capacità di sentire il dolore dell’altro e condividerne, anche solo moralmente, il peso, che i dislivelli si appianano e si realizza l’ideale di un mondo che ci vede tutti, uomini e cani, non migliori, ma uguali. Sarebbe il caso, per qualcuno, di ricordarlo.

Articolo uscito su Largo Belllavista n°62, settembre 2012, nella rubrica Senilità. Foto di Anders Petersen.

5 commenti:

amanda ha detto...

mi piace la tua riflessione anche se avrei usato il termine empatia al posto di pietà

lillo ha detto...

perchè sei un medico ;)

amanda ha detto...

no perché alla pietà associo un valore negativo rispetto all'empatia :)

lillo ha detto...

mmm, a me invece fa strano l'empatia, la comprensione dell'altro senza nessun coinvolgimento emotivo. boh, mi pare troppo pragmatico, buono per un ottimo medico, o un politico, non fra semplici umani, o ancora di più fra umani e animali...

Alle ha detto...

anticamente la pietas aveva un significato diverso, esprimeva più un senso di rispetto che di compassione come è inteso oggi. Non trovo però l'essere compassionevole un atteggiamento del tutto negativo, in fondo c'è un trasporto di sentimenti verso qualcuno come affetto, protezione, condivisione.

Il cane è sicuramente migliore dell'uomo, non conosce condizioni il suo è un amore totale. E' un compagno affidabile, gioisce con te, condivide le tue lacrime, prende le tue difese, ti salva la vita. Niente a che fare con il genere umano.