sabato 29 giugno 2013

madonnella

Una mattina, senza che ci sia una vera spiegazione, lo prende una felicità così grande che non riesce a restarsene a letto. È appena giorno, ma si accorge, affacciandosi dal balcone della stanza, di come i condomini spellati di fronte risuonino di vita, di chiacchiere e tv a basso volume, profumino di caffè e di bucato fresco, di sughi preparati per il pranzo, di merda calda di piccione e del vibrare dei gatti in agguato sui tetti più in basso. Perfino il gatto di casa lo osserva dal fondo della cucina con gli occhi spalancati, quasi avesse di fronte un ospite nuovo. Si sentono i treni fischiare in lontananza e ogni cosa intorno è immersa nel fresco rigenerante del primo mattino d’estate.
È irrequieto, va avanti e indietro per la casa, in punta di piedi per non fare rumore e svegliare gli altri. Si muove in piccoli cerchi concentrici, immaginandosi come un tuffo nell’acqua che si riverberi intorno nello spazio della casa, gira prima su se stesso, poi intorno a un asse immaginario, e a ogni giro allunga il suo tragitto di poco, un passo alla volta, un passo alla volta, ma in silenzio, fino a che il suo giro comprende l’intera casa, tocca ogni muro dell’appartamento, fino a che i muri stessi non riescono più a contenerlo, e allora spalanca la porta dando un gran respiro, per inalare la polvere delle scale mentre si affaccia sul pianerottolo.
E c’è polvere e aria consunta, ma non solo, intercetta un odore che si spande per la tromba delle scale, riempiendole della sua fragranza, un odore talmente diverso che ci mette un po’ per capire cos’è, profumo di rose. Viene dalla figlia del cartolaio in pensione che sta al primo piano, che scende lentamente le scale del condominio, a braccetto del padre, per andarsi a sposare. Li vede affacciandosi giù attraverso la ringhiera. Suo padre in giacca grigia, umile ma dignitoso. E lei giovanissima, quasi una bambina, con un vestito bianco e corto che le lascia scoperte le gambe caramellate dall’abbronzatura, e un odore di rose pieno di speranza e di mistero. E anche lui, in ciabatte e pigiama, decide all’improvviso di rimanere in quella scia di profumo il più a lungo possibile, dimenticandosi del resto, e di seguire la sposa giù per le scale del palazzo e poi fin in fondo alla strada, dove li aspetta una macchina ben lucidata.
Così vanno in quello strano corteo lungo il marciapiede, sul lato in ombra della strada, padre e figlia silenziosi e indifferenti, quasi regali nel loro ignorarlo, e lui dietro, strambo testimone del fascino di una sposina. Incrociano i loro vicini che già in costume, col telo sulla spalla, vengono fuori dai portoni, e attraversano il quartiere a piedi per fare il bagno sulle spiagge oltre i palazzi, a Pane e Pomodoro. Sollevano la mano per salutare e per sfottere, quando di sabato mattina passa il bus semivuoto dei professionisti sofferenti in cravatta. Fanno gli auguri alla sposa, e sono allegri e lievemente assonati, lenti mentre strascinano le infradito sul marciapiede, né gli sembra che riescano davvero a sentire quell’odore, che adesso riempie anche la strada, a condividerne con lui la meraviglia. Lo fissano curiosi mentre va svagato, in ciabatte e pigiama, dietro alla sposina e a suo padre, e lui saluta tutti a bassa voce, con un cenno cortese della testa, e per ognuno ha, di contro, uno sguardo carico di domande che non verranno mai pronunciate.

lunedì 17 giugno 2013

la morte dei nonni

Uno è morto di sera, sognando la pioggia che oscura e rinfresca l’estate, ma senza avere più sete.
L’altro nel suo letto ortopedico, col becco rivolto alla finestra e le tende chiuse. Com’era bello nell’abito scuro, elegante come da tempo non si vedeva.
Fuori la strada è tappezzata di manifesti, annunciano la fine di un’era senza importanza, una storia di uomini che portano con sé pochi oggetti riposti negli angoli della bara: il tagliaunghie, il rasoio, lo spazzolino da denti, il cappello e il fazzoletto intonati, il portafogli di pelle consunta, gli occhiali, il mazzo di carte da gioco. L’orologio fermo ad un’ora. Le sigarette messe da parte, per un ultimo tiro, otto anni prima.

venerdì 14 giugno 2013

l'aria

Il giorno in cui è morto mio nonno, lui era così grande che quasi non entrava nella cassa. Ci stava stretto con le spalle larghissime e toccava il fondo con la suola lucida delle scarpe, le sue grosse mani spingevano sui bordi per uscire. Sembrava goffo, come chi non si sente a suo agio col proprio destino mortale e se ne sta sull’attenti, aspettando un qualsiasi accidente che lo salvi dall’imbarazzo. Più di tutto, però, di lui spiccava il naso, con la sua gobba secolare e le narici storte a forza di annusare l’aria, lo vedevi ergersi oltre l’orizzonte immacolato della bara, come ad inseguire l’aroma denso di caffè, preparato per noi dai vicini nel primo mattino. Sarebbe stata la prima colazione che saltava dai tempi della guerra, e anche per questo, forse, ci teneva il muso e rifiutava di parlare con chiunque.

Nota. Con questo raccontino si conclude il piccolo romanzo a puntate sull’amicizia con mio nonno Antonio, venuto a mancare ieri, 13 giugno. L’ultima cosa che ha detto è stata: “Così è la vita”, poi è morto. Nei prossimi mesi mi piacerebbe raccogliere tutti i raccontini scritti intorno a lui negli ultimi due anni e pubblicare un libro in sua memoria e in memoria dell’altro mio nonno, Donato, morto cinque giorni prima, l’8 giugno, anticipando di pochissimo il suo amico.

giovedì 13 giugno 2013

imperfetto

Ti trascinano i dottori senza scopo
senza fare previsioni né scongiuri
un altro giorno ancora di dolore
dove i buchi secchi nelle braccia
accolgono farfalle – la speranza
di una parola intellegibile –
e non sanno come ormai sei tutto cuore

(non conoscono il dolore
nel tuo sguardo fesso
quando passo a controllare come dormi
né il sapore della fine nel tuo fiato
il rantolo convulso che t’affoca)

anche se con precisione dottorale
mi spiegano il congegno muscolare
imperfetto
come batte per inerzia nel tuo petto
e quando poi s’inceppa – mi dicono –
tu muori.

martedì 11 giugno 2013

un uccellino che viene dal fiume azzurro

Dopo la Lunga Marcia fu fatta in Cina una grande battaglia contro gli uccelli che sterminavano il raccolto di riso nelle pianure del Fiume Azzurro. Studenti e soldati stettero giorni e notti nei campi dell’immensa regione a battere coi sassi contro latte e bidoni o anche strofinando canne di bambù in modo che il rumore e il fracasso impaurissero volatili grandi e piccoli così da non farli riposare a terra. La nuvola immensa di uccelli spaventati restò in aria sette giorni e poi caddero sfiniti nei dirupi o affogarono nell’acqua dei fiumi. Soltanto un piccolo uccello arrivò a Pechino ed entrò in una finestra aperta del monastero dove già da anni vivevano gli eunuchi relegati là dentro fino all’estinzione. Anche loro spazzati via dalla grande gabbia che era la casa imperiale. Adesso ne era rimasto uno solo nel convento. Il suo ultimo compagno era morto già da diversi anni. Vecchissimo perché aveva servito l’imperatrice madre Tseu-hi morta nel 1909. Erano quattrocento gli eunuchi ed era rimasto solo. Quell’uccellino viene a fermarsi proprio sul bordo della sua ciotola di riso. E allora lui che forse vede in queste piume la sua antica padrona torna a servire con gesti umili e riverenti. Apre il becco dell’uccello e gli mette dentro un chicco di riso. Così fino a quando capì che era sazio. E dopo dormirono lui sulla stuoia e l’uccellino accanto a lui perché erano stanchi morti.

(Tonino Guerra, da Il polverone)

giovedì 6 giugno 2013

da una lettera di cechov

Il pittore Levitan è qui in visita. Ieri sera siamo andati a caccia; lui ha sparato a un beccaccino che, ferito a un’ala, è caduto in una pozza d’acqua. L’ho raccolto: un lungo becco, due grandi occhi neri e un bellissimo piumaggio. Mi guarda, stupito. Che farne?
Levitan corruga la fronte, chiude gli occhi e mi prega, con un tremito della voce: “Caro, schiacciategli la testa col calcio del fucile”.
Io rispondo: “Non ho il coraggio”.
Lui seguita a stringersi nervosamente nelle spalle, a scrollare il capo e a implorare. E il beccaccino a guardarci con stupore.
Ho poi dovuto obbedire a Levitan e ucciderlo. Una bella creatura innamorata di meno, e due imbecilli che tornano a casa e si mettono a tavola.

domenica 2 giugno 2013

ritratto di salvatore masciullo


testamento

Di te ci rimarranno le frasi consumate
(come fossimo dal rigattiere) le filastrocche da tenere a cuore
e non il tuo corpo collassato o il materasso impregnato di sangue
non tutti i tuoi buongiorno senza più voce
ma le parole sconclusionate le amate parole inventate
apposta per noi per darci risate:
“Daunbilata” “Toppola” “Perbacco Patate”
e il tuo motto di sempre “La vita è un voltavita”.