giovedì 31 dicembre 2015

il mistero e la bellezza del mondo

Noi siamo una specie curiosa, l’unica rimasta di un gruppo di specie (il «genere Homo») formato da almeno una dozzina di specie curiose. Le altre specie del gruppo si sono già estinte; alcune, come i Neanderthal, poco fa: neppure trentamila anni or sono. È un gruppo di specie evolutesi in Africa, affine agli scimpanzé gerarchici e litigiosi, ma ancor più ai bonobo, i piccoli scimpanzé pacifici, allegramente promiscui ed egalitari. Un gruppo di specie ripetutamente uscite dall’Africa per esplorare mondi nuovi e arrivato lontano, fino in Patagonia, fino sulla Luna. Non siamo curiosi contro natura: siamo curiosi per natura.
Centomila anni fa la nostra specie è partita dall’Africa, forse spinta proprio da questa curiosità, imparando a guardare sempre più lontano. […]
Penso che la nostra specie non durerà a lungo. Non pare avere la stoffa delle tartarughe, che hanno continuato ad esistere simili a se stesse per centinaia di milioni di anni, centinaia di volte di più di quanto siamo esistiti noi. Apparteniamo a un genere di specie a vita breve. I nostri cugini si sono già tutti estinti. E noi facciamo danni. I cambiamenti climatici e ambientali che abbiamo innescato sono stati brutali e difficilmente ci risparmieranno. Per la Terra sarà un piccolo blip irrilevante, ma non credo che noi li passeremo indenni; tanto più dato che l’opinione pubblica e la politica preferiscono ignorare i pericoli che stiamo correndo e mettere la testa sotto la sabbia. Siamo forse la sola specie sulla Terra consapevole dell’inevitabilità della nostra morte individuale: temo che presto dovremmo diventare anche la specie che vedrà consapevolmente arrivare la propria fine, o quanto meno la fine della propria civiltà.
Come sappiamo affrontare, più o meno bene, la nostra morte individuale, così affronteremo il crollo della nostra civiltà. Non è molto diverso. E non sarà certo la prima civiltà a crollare. I Maya e Creta ci sono già passati. Nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che collettivamente. Questa è la nostra realtà. Per noi, proprio per la sua natura effimera, la vita è preziosa. Perché, come scrive Lucrezio, «il nostro appetito di vita è vorace, la nostra sete di vita insaziabile» (De rerum natura III, 1084).
Ma immersi in questa natura che ci ha fatto e che ci porta, non siamo esseri senza casa, sospesi fra due mondi, parti solo in parte della natura, con la nostalgia di qualcosa d’altro. No: siamo a casa.
[…] Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciamo senza fiato.

[Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, 2014, pag. 82-85] 

tema di smentita

È bello che in sogno noi
si riesca ancora a scopare.
Al telefono ieri mi leggevi di rane
di primi baci scoccati da un treno.
Né mi contavano «addio» fra i colpi
di tosse e di nebbia. Soltanto
con pena e malizia: «Lillo mio
chissà». Tema eterno di smentita ché
non «amico» mi chiamavi
ma per nome e mi baciavi
in una anonima stazione nuda
con me in sogno. Con me perduta.

martedì 29 dicembre 2015

piani inclinati

Ieri Nicola Lagioia ha rilanciato sulla sua bacheca Fb una intervista di Alessandro Baricco sul Fatto Quotidiano in cui Baricco, partendo dalla sua idea di storytelling riesaminava la situazione italiana in maniera talvolta approssimativa talvolta assai affascinante, perché in sostanza Baricco (e questo da sempre) dà l’idea di filtrare tutta la realtà su un piano fortemente, quando non esclusivamente, letterario, che ad alcuni può piacere ad altri no, ma è il suo modo di affrontare la vita e va rispettato. Lagioia suggeriva a Baricco di cambiare punto di vista, adottando il metodo Steinbeck, ovvero tastare con mano la realtà di cui si parla, spingersi in profondità nelle piaghe sociali e ritrovare in esse una umanità che sarà pur sempre letteraria ma fatta di carne e sangue. È un contrasto vecchio quanto la storia, quello che vede gli artisti scegliere di muoversi su un piano verticale, come Steinbeck, i cui estremi toccano insieme cielo e terra in un continuo saliscendi teso a superare le distanze, i limiti, toccare insieme fango e stelle, ovvero un piano orizzontale, come Baricco, sospeso fra cielo e terra in perfetto equilibrio formale e sensualmente spirituale. Non è che uno sia migliore dell’altro, perché ognuno soddisfa dei palati e delle esigenze diverse, visioni talvolta opposte. Tommaso Pincio, molto giustamente diceva che quello di Baricco è linguaggio da salotto (salotto borghese che nulla ha a che fare con le strade polverose di Steinbeck) proprio come possono esserlo i film di Woody Allen o i romanzo di Proust, il che però non è un titolo di demerito, c’è dell’ottimo salotto in giro così come dell’ottima strada, eppure salotti e strade che è meglio evitarsi. Ciò che mi è venuto da chiedermi, però, affacciandomi anch’io su questi discorsi, è dove sto messo di preciso, e se sono più un poeta di strada o da salotto, o invece un ibrido, un bastardino da salotto. Certo è che il salotto mi appartiene, ma credo sia inclinato, non sta precisamente in equilibrio e nemmeno in verticale, né saprei definire quali sono i gradi di pendenza che mi caratterizzano. E anche se di Baricco mi importa assai poco come compagno di stanza (ma di Allen sì, ad esempio) tutta questa storia nata per caso ieri sulla bacheca di Lagioia, mi affascina parecchio, perché mi racconta di nuovo della continua ricerca, letteraria e personale, che ciascuno di noi deve affrontare per definirsi umano.

Mi ha risposto Tommaso Pincio: Ho tirato in ballo la questione del salotto perché avevo visto un film di Allen la sera prima. Pur restando un aspetto pertinente, può risultare depistante rispetto al nocciolo della questione che resta per me il fare di ogni cosa materia di storytelling, ovvero non oggetto di conoscenza (come nel metodo Steinbeck auspicato da Nicola) ma strumento di persuasione, seduzione, creazione di consenso. Questo era il punto, per me.

domenica 27 dicembre 2015

festival

Stanotte ho sognato di organizzare a Locorotondo un festival della poesia dialettale, in cui invitare da ogni Comune (perché nel dialetto non si parla di regioni ma di Comuni) il meglio dei poeti dialettali e dei linguisti, con tanto di reading in piazza e di convegni, e l’unica regola era che tutti parlassero esclusivamente nella propria lingua – così nessuno capiva più nessuno, oppure si scopriva come il veneziano avesse parole in comune con l’aquilano, ma arrivate lì dal mare, attraverso i commerci col barese e poi su per le vie di transumanza del foggiano – e in questa immensa terra di Babele, più colorata del vestito di Arlecchino, tutti riscoprivano fraternamente la ricchezza della propria cultura e il mistero della propria origine. 

(La seconda parte più babelica fa parte del sogno, alla prima del festival sto pensando da tempo, e prima o poi la organizzo sul serio).

legge di murphy

La legge di Murphy, a cui credo più che alla Bibbia, me lo insegna: se il 23 dicembre sbruffoneggi pubblicamente che quest'anno a Natale ti prenderai una vacanza, passerai i tre giorni successivi a casa ammalato e indolenzito. Per fortuna che mi resta l'autoironia, altrimenti direi che è sfiga.

sabato 26 dicembre 2015

aspetta che vado a vedere

A conferma di quanto ho sempre pensato, che cioè Stephen King si ricollega direttamente alla grande tradizione del romanzo inglese dell’800, Dickens su tutti [QUI]:

«Sto leggendo On Writing di Stephen King, oggi lo finisco, e, magari mi sbaglio, mi sembra un atteggiamento stranissimo e affascinante, quello di Stephen King, salta di pari il novecento, è come se non esistessero Pirandello, Svevo, Kafka, Hašek, Queneau, Camus, Čechov, Brodskij, ma anche, non so, Philip Roth, per esempio, e adesso mi devo alzare perché scrivo steso sul letto e ho sentito un rumore, in cucina, come di uno che si alza in piedi che è un rumore strano perché son solo in casa non mi fa bene, a me, leggere Stephen King.» 

[dal blog di Paolo Nori]

mercoledì 23 dicembre 2015

natale 2015

L'anno scorso, il giorno di Natale, c'era la neve e io stavo lavorando. L'anno scorso ho lavorato sempre. Fra ottobre 2014 e giugno 2015 non mi sono fermato un attimo, ho lavorato ogni singolo giorno, ogni minuto, fino a raggiungere un livello di stress e alienazione incredibili, tanto più che, se lo dicevo, nessuno mi credeva. Ho lavorato come un matto, ma ho lavorato bene, i risultati lo dimostrano, e quest'anno a Natale faccio vacanza, una vera vacanza di Natale. Ricomincio il 29 dicembre, però questa settimana di festa me la faccio con tutti i crismi, cioè senza pensare a niente di niente, respirando l'aria malsana delle feste in famiglia o con gli amici emigrati di ritorno (che mi mancano pure). Tanti auguri a te, Gesù Cristo.

martedì 22 dicembre 2015

quella cosa che ti alzi

Uno scrittore è quella cosa che ti alzi nel cuore della notte per scrivere un racconto che ti è appena arrivato nel sogno con tanto di incipit perfetto, e mentre scrivi bestemmi tutto il tempo perché fa freddo, e stai perdendo sonno prezioso per scrivere un racconto che non ti cagherà mai nessuno e forse resta nel cassetto per i prossimi dieci anni o tutta quanta la tua vita. Tu lo sai, bestemmi, eppur ti muovi.

domenica 20 dicembre 2015

cappotti e panchine (rivisto)

Ho fatto un sogno. Cechov, sulle rive del Mar Secco, mi dava i suoi consigli per scrivere dei buoni racconti. 
Il primo fra tutti, mentre ci aggiravamo come pazzi lungo le rive colpite dal Maestrale: «Per favore, assicurati sempre che i tuoi personaggi abbiano dei buoni cappotti, almeno in senso gogoliano, ma soprattutto che ci siano delle panchine dove fermarsi per riposare, che ogni tanto, a furia di parlare, ti viene male ai piedi!» 
Un freddo ci prendeva dentro dall’interno, da un nucleo seppellito nel profondo che esploso risaliva in superficie, come un’eco muta e si spandeva in lunghi brividi concentrici sulla superficie della pelle. Ci vibrava il cuore di paura e d’ansia, man mano che ci confidavamo fra di noi, avventurandoci in quella terra desolata, continuando ad avanzare senza pace lungo la spiaggia piena d’ossa di tutti coloro che, prima di noi, erano passati per quello strano dolore polverizzatosi in sabbia, dove lasciavamo le impronte. Cechov mi guardava di sottecchi, nascosto dalla visiera del cappello.
«Dimmi, la senti anche tu questa porca disperazione che consuma, e ti costringe a vivere e godere anche se tutto ti chiede, ogni momento, di farla finita? È la mancanza degli altri quella, ed è per sempre, la solitudine di chi non sa, ma sente il vuoto che incombe sotto la superficie delle cose, l’eco sordo che rimbomba fra le volte. Tu sbagli atteggiamento. Prova ad esserci per gli altri, ma senza esagerare. Il mondo è pieno di ingrati. Dire la verità non aiuta. Per questo tu scrivila e basta. In questo modo potrai spacciarla per invenzione e sentirti a posto con la coscienza, in qualche modo. Il rispetto degli altri non ti serve quando sai di avere scritto ciò che devi. Alla solitudine ci si abitua, come vedi.» 
Poi è suonata la sveglia e mi sono risvegliato con la sensazione che lui, di là, continuasse a borbottare da solo i suoi consigli, mentre mi allontanavo verso il letto.

sabato 19 dicembre 2015

libriccini (da bruciare)

– Questi disse il curato – non devono essere di cavalleria ma di poesia. […] Questi non meritano d’esser bruciati, perché non fanno e non faranno mai il male che hanno fatto quelli cavallereschi; son libri di riflessione, senza pregiudizio per il prossimo. 
– Ah signore! – intervenne la nipote –, li faccia bruciare come gli altri; perché non ci sarebbe proprio di che stupirsi se poi mio zio, una volta sanato della sua malattia cavalleresca, leggendo questi, si incapricciasse di diventare pastore e di andarsene per boschi e prati suonando e cantando, o peggio ancora poeta, che a quanto dicono è infermità incurabile e contagiosa. 

[Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, trad. Vittorio Bodini, Einaudi, 1957, pag. 69, 70]

metafora

Stamattina, parlandone a un amico incuriosito, cercavo una bella immagine per descrivere il mio grato paesino, ultimamente incluso da molti esperti del settore fra i più belli d’Italia, e mi è venuta questa. Locorotondo è come un uovo, talmente perfetto e campestre nell’idea, che pare l’abbia cacato una grassa gallina sulla terra. Nella pratica, dobbiamo dire, è più simile all’uovo in padella dell’immagine: col suo guscio protettivo (la sua storia, la sua cultura) finito nella monnezza; il tuorlo (il centro storico) appetitoso solo a guardarlo e fatto apposta per vantarsene nemmeno l’avessimo cacato noi che l’unica cosa che sappiamo fare è inzupparci il pane e ripetere come pappagalli quant’è buono; e l’albume (la periferia) che è un po’ strabordato negli ultimi anni, “svaccato” direbbero i ragazzini in palestra, anche se le vacche con le galline c’entrano poco. L’albume è meno colorato e nutriente del tuorlo, ma buono è buono, te lo puoi mangiare uguale e infatti, quando si può, qualcuno se lo mangia senza problemi.

luoghi comuni

Non voglio assolutamente cedere ai luoghi comuni, però c'è da dire che da quando ho vinto il bando di traduzione con l’Istituto Culturale Romeno e mi scrivo con loro per definire le cose, la mail mi si è riempita di proposte di puttanoni dell’est Europa che mi chiedono se ho voglia di chattarci con amore. E io cosa dovrei dire, voglia ne ho sempre, è l’amore che mi manca.

giovedì 17 dicembre 2015

foto di natale (il mio natale)


noia

La narrativa contemporanea mi annoia, è più forte di me. Posso distinguere un libro buono da uno no, riconosco che ci sono qui e lì delle valide eccezioni, ma inevitabilmente la narrativa contemporanea presa nel suo insieme mi annoia. Se la poesia è in crisi, la narrativa è quasi nulla.

morgana

Morgana
contro l’ovvio personale
che ti chiava
e non ti chiama, scrive
poesie fra parola e parola
per dire che t’ama
senza compromessi
tu rispondi in chiave
di pompino (o soffocotto, come dici)
che la poesia più felice
è un bambino
frutto spesso dell’errore
d’uno che si trastulla un po’ troppo
con la penna
per definirlo (seriamente)
uno scrittore.

mercoledì 16 dicembre 2015

qualcuno lassù ci osserva

«RIFLESSIONI DI UNO SCONOSCIUTO, mercoledì, 09 settembre 2015. Non c'è niente da fare. La più bella invenzione di questa età contemporanea è internet; stai su un sito, sfogli le pagine e poi navighi nel web; ma perchè navigare? io direi volare, poichè la navigazione comporta che ci sia un porto, un approdo, il volo no. Vabbè non è questo il discorso, è un altro. Volando in rete, appunto, visito la pagina di Tonio Raspuntin (forse è il suo nickname), un blog essenzialmente letterario, di poesia, e non solo. 
Qui il curatore del sito riporta le riflessioni di un poeta (così leggo in rete), Gianni Priano, genovese, sui cantautori italiani, ma specificatamente su Francesco Guccini e cosa ha rappresentato per lui il cantautore emiliano. Qui non si parla di megapalchi, nè di capelli platinati, di classifiche, di download, di milioni di click su you tube; pertanto chi non è interessato a tutto questo è pregato di leggere il suo articolo, ne va la pena. Buona lettura. 
Michele Lenzi 

P.s.: andate su google, scrivete Tonio Rasputin, clickate su e vi apparte la sua homepage e scorrete fino ad arrivare su "cantautori"» 

martedì 15 dicembre 2015

eccellenza

Cos’è l’eccellenza di un territorio? L’eccellenza è quella cosa per cui in un progetto di finanziamento per imprese culturali che copre tutta Italia e che quest’anno sostiene 50 imprese con un totale di due milioni e mezzo di euro (Funder 35 si chiama), tre di queste imprese sono di Locorotondo, indirizzando verso il nostro territorio delle cifre importanti per fare attività culturali. Mi sento di dirlo con orgoglio. In realtà i soggetti finanziati sono due (Liolà e la mia Pietre Vive) mentre la terza realtà, Il Tre Ruote Ebbro, è stata segnalata come meritevole e ha vinto l’accompagnamento. Senza i ragazzi del Tre Ruote Ebbro, però, che hanno scritto con me il progetto, Pietre Vive non avrebbe mai vinto. Per cui, per me, i vincitori sono tre. Il progetto presentato si chiama b-digital e si occuperà della realizzazione di audio e-book. 
Sempre oggi mi è arrivata notizia che Pietre Vive ha vinto anche un bando di finanziamento con l’Istituto Culturale Romeno per la prima traduzione italiana di Elena Vladareanu, splendida poetessa romena che l’anno prossimo porteremo in Italia e con cui gireremo il paese. 
Lo so che sembra che me la tiro ma in effetti me la tiro. Ogni tanto ci vuole.

il fazzoletto

Ho fatto un sogno. Era il sogno mai sognato di una lunga partita a carte che si riavvolgeva su se stesso per parlarmi e lamentarsi del fatto che noioso com’era non sarebbe mai mancato a nessuno. Gli ho detto che se voleva poteva mancare a me, ché mi mancano già così tante persone che una in più non mi faceva troppo male. Allora il sogno mi ha detto grazie con il sorriso commosso di chi non è abituato alla gentilezza e sta per mettersi a piangere, così per dissimulare la cosa mi ha passato il suo fazzoletto e abbiamo cominciato a piangere in due. Era un sogno dalla lacrima facile. Ma mi dispiaceva che persino lui provasse nostalgia degli altri.

lunedì 14 dicembre 2015

la guerra di luciano

Segnalo questo pezzo, scritto dalla figlia di Luciano Bianciardi e pubblicato su Cummerse, una rivista del mio bel paese, Locorotondo, dove pare Luciano si trovò a passare negli anni della guerra. Per leggerlo, vai QUI.

sabato 12 dicembre 2015

a natale regala un libro di poesie


Un piccolo video che abbiamo fatto ieri, un po' seriamente un po' per gioco. Per questo l'ideale è vederlo a schermo intero. O, come diceva Bob Dylan, PLAY FUCKIN LOUD (AND FULL SCREEN). 

botta e risposta

La poesia sarà pure linguaggio universale (dicono e qui quasi non ci piove), ma io mi chiedo a volte, lo confesso di Magrelli, De Angelis, Buffoni, Cucchi, Nove, Cavalli, pure De Luca eccetera e tutti i miei colleghi che leggo e poi mi parlano (oggigiorno) della loro mezza età raggiunta quasi con stupore, del disgusto e del rimpianto della loro vita urbana (o mondana che sia), delle lotte clandestine o dichiarate dei loro vent'anni che furono i miei meno venti, del mondo che per loro è Europa e non cede alla speranza persino nel ricordo del nostro Meridione, dell'amore che non muore anche se poi gli comincia a morire intorno in geriatria e nei reparti tumorali, e la paura, e la serena accettazione della morte e nonostante ciò orgogliosi della propria piccolezza umana che si fa autorevolezza editoriale nei mantelli rossi superumani nascosti sotto i cappotti lunghi con le biro, pieni di parole-esplosivo ma privi di potere che possa cambiare le cose (così da dirsi voci con causa senza effetto), orgogliosi di sé e della propria scrittura che non cede nelle vendite e nelle invidie dei colleghi anche se cede qualche volta nel verso costipato in piccole scorregge di senso, orgogliosi delle baruffe e degli intrighi da concorso che daranno colore al melodramma dell’ormai prossima biografia, orgogliosi come bambini delle proprie amanti-figlie ladre di un talento intraducibile, io mi chiedo a volte, se li guardo e in loro mi specchio, ma che c'entrano quei poeti lì con me, coi miei problemi e la distanza chilometrica che, sempre più, si fa morale, che mi sanguina nelle gengive? E la risposta è (rabbiosa o sconfortata che sia): poco, anzi, quasi nulla.

mercoledì 9 dicembre 2015

la fattoria degli italiani

Per come la vedo io la politica italiana degli ultimi trent’anni si può riassumere in questa formula: una massa di ignoranti ha votato deliberatamente un branco di ignoranti per farsi rappresentare democraticamente, in modo da permettere al branco di ignoranti di facilitarli a restare nel fango dell’ignoranza irresponsabile in cui sguazzano dalla nascita. Questo all’inizio con grandissimo godimento, poi man mano sempre meno fin all’odierno sconforto disgusto o terrore, quando dall’età dell’ingrasso ci si avvicina a quella del macello e ci si chiede perché.

poesia per una poeta ammalata

A te poeta allergica alle rime mie
baciate scrivo da poeta
e mando baci disarmanti e lamantini
che non risparmino sorrisi all’
allettato umore di un’insonne
per troppa pena di buio o pena d’amore
in nome di un verso che crudo
non dica la vita se non in tema di salmone
dal Baltico diretta con ostinazione
alla radice d’acqua dolce che lenisca
il tuo cuore. Ti scrivo dallo scoglio
che ho scelto nella crisi da riscaldamento
globale per condividere il piacere
di una lunga solitudine senza redenzione
le zone d’ombra del mio cuore
e la fratellanza del mare che non limita
la differenza di specie e la condanna
all’estinzione, e oscura le nostre età
distinte e gli accenti che ci fanno stranieri
persino nel canto del mare. E ti scrivo
baci sgraziati e sbuffanti da tricheco
baci in rima o in assonanza, baci
in controtempo o al massimo stonati
baci in calore al davanzale e baci
dolcissimi ma senza un finale in amarci
baci teneri da orso e baci muti o canterini
che sanno o non sanno di niente
baci-aspirina per ogni tuo acciacco ogni
accidente, di quelli che ti bacio sulla fronte
e poi ti dico ecco vedi adesso passa.

lunedì 7 dicembre 2015

punto morto

È sempre così. Quando arrivi a un punto morto della storia e non sai come rimettere a posto le cose, ti inventi una rivoluzione, una guerra, un attentato, e fai pulizia. Chi muore muore, l’importante è liberare spazio. La Francia lo dimostra ogni volta con la solita classe.

sabato 5 dicembre 2015

possibili risposte ai tempi complessi che viviamo

Ieri ho visto un piccolo documentario su Infinite Jest prodotto dalla Rai. E a un certo punto nel documentario compariva Nicola Lagioia che, facendo il paragone con alcuni grandi scrittori americani precedenti a Wallace, Carver in testa, diceva che tempi complessi come il nostro (e senza nulla togliere a Carver e ai suoi racconti) richiedono romanzi complessi come quello di Wallace. Il che di per sé suona giusto, ma poi mi ha fatto pensare che ci sono decine di romanzi che, fin dall'800, possono assimilarsi per complessità al libro di Wallace. Per dire, non c'è quasi nulla del libro di Wallace che Proust non avesse già provato a fare (e non è il solo). Per cui, a un certo punto, mi sono perso, e ho cominciato a non capire più quali sono i tempi complessi e quali no. Però ho trovato una giustificazione al fatto che, se ho voglia di scrivere e pubblicare un libro di poesie complesso e lungo 200 pagine lo posso fare. E se qualcuno mi dice che un libro di poesie deve essere breve, conciso e ponderato (come andava molto bene nel '900, ma anche no al tempo di Dante, di Petrarca o di Tasso) io posso sempre rispondergli che tempi complessi come il nostro richiedono libri complessi (come ha ben detto Nicola Lagioia), persino di poesia. A patto che siano ben scritti, e se il pubblico li ritiene eccessivamente complessi, cazzi loro, si vede che non capiscono i tempi in cui vivono.

mercoledì 2 dicembre 2015

passaggio di palla

Dacci pure la grazia
profumata dei bambini in salvo
la leggerezza di chi muore
poco a poco nel rimpallo. Dacci di Milo
De Angelis la perfezione sferica
ricacciata nel verso ormai negro
sull’opposta riva del campo.
Dio non fischiarci in fallo
se ricadiamo ogni giorno nel buio.

martedì 1 dicembre 2015

finali

In genere a un finale perfetto si deve buona parte del successo di un film. Se il finale è molto buono spesso è addirittura capace di farti perdonare i difetti, se ci sono, della pellicola. Anche se non lo ammettiamo, in tempi che impongono il cinismo più disincantato, abbiamo ancora disperatamente bisogno di storie a lieto fine. In questo senso, molti non ci pensano, ma molti dei film di Woody Allen ci offrono alcuni dei finali più letterariamente ed emotivamente perfetti della storia del cinema, ed hanno un potere consolatorio fortissimo, capace di lenire anche l’amarezza intrinseca delle sue storie. In questo senso, sono molti i finali perfetti che potrei citare. Quello famosissimo sulle uova di Io e Annie, il sorriso disarmante dello stesso Allen in Manhattan, Zelig salvato dall’amore di una donna, l’urlo di disperazione di Sen Penn in Accordi e disaccordi che secondo me Allen ha rubato a La strada di Fellini, o ancora quello nichilista di Match Point. Ma il più bello di tutti, proprio perché si solleva sul mondo come ad abbracciarlo e incoraggiarlo a resistere, e quello di Crimini e misfatti, che di Match Point è stato il gemello per disperazione, quando ancora Woody Allen era capace di volare. 

scritto a un semaforo

Alla fine se metti insieme tutti quelli che abbandonano gli animali senza pensarci due volte + quelli che picchiano le donne come se fosse naturale + quelli che Gesù è grande ma gli immigrati devono morire perché ci rubano il lavoro + quelli che la famiglia è tutto ma se Dio mi dà un figlio gay lo uccido + quelli che lo studio non è un diritto ma un optional per il lavoro malpagato che ti aspetta + quelli che palazzinari a più non posso tanto il verde è solo un colore + quelli che andare ai musei che palle meglio vedersi la partita di calcio truccata e illudersi che è ancora sport + quelli che Salvini dacci un futuro + quelli che ti dicono ancora comunista + quelli che Pasolini è Dio peccato che se lo leggo mi annoia + quelli che i preti sono tutti pedofili ma io voto sempre solo Berlusconi + quelli che fare le ferrovie al Sud è dare lavoro alle mafie + quelli che la politica ha rovinato il paese ma Valentino Rossi può evadere le tasse perché corre + quelli che la politica ha rovinato il paese e io non voto più ma dopo che ho votato per vent’anni Berlusconi + quelli che la politica è corrotta ma io voto chi mi dà il condono edilizio davanti a casa + quelli che la Fallaci è una troia psicopatica che istiga all’odio + quelli che Renzi mi sta sul cazzo ma voto Pd perché siamo una grande famiglia direi che non servono tanti sondaggi Istat per capire che l’Italia è una bella marea di stronzi.