martedì 28 giugno 2016

morte di un poeta

Per qualche strano motivo l’espressione «morte di un poeta» suona sempre un po’ più concreta che non «vita di un poeta». Sarà perché «vita» e «poeta», come vocaboli, sono quasi sinonimi nella loro nobile indeterminatezza. Mentre «morte» – anche come vocabolo – è qualcosa di ben definito, quasi quanto è definito il prodotto stesso del poeta, cioè una poesia, che ha come elemento principale il suo ultimo verso. Un’opera d’arte, quale che sia la sua sostanza, è una corsa verso il traguardo, ed è il traguardo, l’epilogo, a deciderne la forma e a negarle la risurrezione. Dopo l’ultimo verso di una poesia non c’è più posto per nulla, se non la critica letteraria. Così, quando leggiamo un poeta, partecipiamo alla sua morte o alla morte delle sue opere. […] 
Un’opera d’arte vorrebbe sempre sopravvivere al suo autore. Si potrebbe dire, parafrasando il filosofo, che scrivere poesia è un modo, anch’esso, di esercitarsi a morire. Ma, a parte la pura necessità linguistica, ciò che spinge a scrivere non è tanto una preoccupazione per la caducità della propria carne quanto l’impulso a salvare certe cose del proprio mondo – della propria civiltà personale, della propria continuità non-semantica. L’arte non è un’esistenza migliore, ma è una esistenza alternativa; non è un tentativo di sfuggire alla realtà, ma il contrario, un tentativo di animarla. È uno spirito che cerca la carne ma trova parole. 

[Iosif Brodskij, Il figlio della civiltà, trad. Gilberto Forti, in Fuga da Bisanzio, pag. 71-72, Adelphi 1987]

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