domenica 31 luglio 2016

alter ego

La convinzione diffusa secondo cui un poeta scrive sempre per qualcuno è vera solo a metà ed è gravida di non pochi equivoci. Alla domanda «Per chi scrivi?» meglio di tutti rispose Igor Stravinskij: «Per me stesso e per il mio ipotetico alter ego». Consciamente o no, nel corso della propria carriera ogni poeta è alla ricerca del lettore ideale, del proprio alter ego, giacché un poeta ambisce alla comprensione e non al riconoscimento. 

[Iosif Brodskij, Nota in calce a una poesia, trad. Serena Vitale, in Il canto del pendolo, Adelphi 1987, pag. 201]

sabato 23 luglio 2016

mi stringe in gola il sangue...

Mi stringe in gola il sangue.
Mi sanguina dal cuore.
Ogni tua cellula perduta si fa
goccia che risale. Sale e soffoca
dal cuore ma non passa.
Ristagna e secca
negli occhi senza pianto.
E brilla il mio rimorso.
Mi bagna il canto. Perché ti perdo?
Perché non ti ritrovo?

la stazione

Devo prendere un treno diretto verso una stazione di cui non ricordo il nome, sapendo che arriverò troppo tardi per tutto, e nonostante questo non sono preparato, non so dove andare al mio arrivo, e non ho un soldo, né un libro da leggere durante il viaggio. Ho solo una manciata di biglietti per viaggiare, che mi ha regalato mia madre prima di uscire, e non so se sono validi, né fin dove portano. Così, fino all’ultimo, sono indeciso se prendere o meno questo treno, se non sia meglio mandare un messaggio, inventandomi una scusa per non andare, ma indirizzato a chi? Poi il mio senso del dovere è più forte e sono quasi pronto a salirci, quando mi accorgo che l’ultimo treno è già passato. Indispettito e confuso chiamo casa, per chiedere che mi vengano a prendere, ma da casa mi rispondono male, mi dicono che stanno dormendo e che non è quella l’ora di chiamare, di farlo a un’ora più decente. Sempre più confuso, quasi mortificato, mi siedo nella sala d’aspetto della stazione ormai vuota, pronto a passare lì la notte, con la sensazione che sarà la prima di altre mille tutte uguali. Allora mi accorgo che rannicchiato per terra, sotto la panchina dove sto seduto, c’è un barbone. Ha il braccio ripiegato sotto la testa. Sembra dormire, poi mi accorgo mi annusa circospetto, e comincia a ringhiare quando allungo le gambe, puntando minaccioso il mio polpaccio. Non avendo nessun altro a cui rivolgermi, gli racconto la mia storia e gli confesso che mi sento molto stanco, molto solo, che non riesco più a trovare un senso a nulla in questa vita. Mi risponde: «Sei stupido? La vita non ce l’ha un senso. È lì che sbagliate tutti. Vi limitate nelle domande, così avete meno risposte». Ha una voce sgraziata e sgradevole, ma sono così contento di averla sentita, la prima voce che sento da ore, che finalmente mi rilasso, mi distendo. Lui mi fraintende e mi azzanna.

con pepecchio (foto di emanuele colabello)


venerdì 22 luglio 2016

dono

Peppe mi dice: «Una volta, quando ero comunista, mi chiamavano tutti Peppe Zedong, perché sapevo il Libretto Rosso a memoria. Ora mi chiamano Peppe dei bagni, perché sto chiuso qui dentro a lavare i cessi. Però io sono molto fortunato, perché ho avuto il dono della fantasia».

giovedì 21 luglio 2016

i confini artici

Esploro i confini artici. Mi sono perduto, in realtà, in una terra fatta tutta di parole in sospeso che gelano nell’aria e restano lì come sassi non lanciati, risposte non date, temperature che mettono a disagio come piccoli pesi sull’anima, quelli delle vittorie mancate. Mi dirigo a ovest, poi a est, in esplorazione appunto, per scoprire di restare sempre al centro di quella valle senza amici, ma in cui l’unico altro vivo è un piccione viaggiatore di un blu cadaverico, venuto a portarmi un messaggio che non dice. Stiamo in attesa, in silenzio, studiandoci per ore in quel bianco sporco e insensato degli occhi, stretti nei cappotti, e leggendo per ingannare il tempo vecchie pagine di giornali che parlano di ieri inespressi e strisciano trascinate dal vento fra le nostre caviglie, avviluppandole.
Io guardo al cielo che pare una terra rovesciata ma migliore, sempre grigia ma più luminosa, immaginando che mi spuntino le ali per andarci. Allora il piccione viaggiatore comincia a sbottonarsi e a parlarmi di una chiave che non sa ma c’è da qualche parte, per aprire una porta che non sa ma attraverso la quale poter uscire di lì. Man mano che parla comincia ad annerirsi come un piccolo moro, un corvo, il becco gli si fa più aguzzo, tanto che medito, perplesso e un po’ affamato, se non sia il caso di strozzarlo e poi mangiarmelo, poi ci ripenso, perché ricordo di un sogno in cui mi è stato detto che gli uccelli sono sacri. Così, per evitarmi nuove tentazioni, gli affido una missione, gli annodo intorno al collo, come una sciarpa, ben stretta, una pagina di giornale raccolta a caso da terra, e gli dico di portarla altrove, affidarla a un altro, dare a lui la colpa, oppure chiedere di perdonarmi in qualità di interposta persona. E gli dico che solo così potrà salvarmi, attraverso il perdono dei lettori.
Il piccione prende a cuore la missione, e parte in volo con uno scrupolo che mi commuove, ma boccheggiando per colpa del mio nodo troppo stretto. Lo guardo allontanarsi incerto in quel cielo che mi riflette come in apnea. Poi resto da solo, con tutte quelle parole intorno, inutili.

lunedì 18 luglio 2016

scisma

Ogni carriera letteraria comincia come una personale ricerca della santità, come un tentativo di conquistare un «io» migliore. Presto o tardi – e in generale molto presto – si scopre che la penna arriva ben più lontano dell’anima. Questa scoperta crea assai spesso un insostenibile scisma all’interno dell’individuo e spiega almeno in parte la demoniaca reputazione di cui la letteratura gode in certi ambienti ottusi. Niente di male, in fondo, perché quello che va a scapito dei serafini va quasi sempre a profitto dei mortali. E poi, un estremo o l’altro è di per sé alquanto noioso, e nell’opera di un bravo scrittore cogliamo sempre un dialogo tra le sfere celesti e la fogna. Questo scisma, se non distrugge l’uomo o il suo manoscritto (come accadde per la seconda parte delle Anime morte di Gogol’), è proprio ciò che crea lo scrittore, al quale spetta perciò il compito di portare la propria penna all’altezza della propria anima. 

 [Iosif Brodskij, La potenza degli elementi, trad. G. Forti, in Il canto del pendolo, Adelphi 2001, pag. 63-64]

domenica 17 luglio 2016

fake

Quella volta che dici alla tipa sgrammaticata che ti ha appena chiesto l’amicizia su Facebook che non vuoi fare la cam tutti nudi su skype, e il suo profilo si autodistrugge e scompare in un lampo, lasciandoti appena il suo nome falso e le sue ultime parole: “perché questo?”, e tu ti senti come Rutger Hauer in Blade Runner, poi ti accorgi che hai sbagliato, Rutger Hauer è quello che muore anche lui.

notizie dal mondo

Guardo, turbato, il tg. Da una parte del mondo (la parte giusta) la caccia all’islamico per l’attentato di Nizza (84 morti); l’incidente ferroviario fra Corato e Andria (27 morti) che esige pesantemente un colpevole (il «maledetto binario unico»); l’Inghilterra postcoloniale, posteuropea e un poco razzista che ricaccia indietro gli immigrati e si avvia con orgoglio al suo declino. Dall’altra parte del mondo (la parte sbagliata) i gravissimi fatti in Turchia che lentamente si trasforma in dittatura in un bagno di sangue (265 morti, 6000 arresti, ripristino della pena di morte, accuse di cospirazione agli Stati Uniti, avvio della repubblica presidenziale): tutto quanto nel silenzio dei Paesi Democratici e in nome della democrazia. Da una parte del mondo (la parte sbagliata) Qandeel Baloch, modella pakistana, viene uccisa a 26 anni da suo fratello perché eccessivamente libera e disinibita per lo spazio che la morale del suo paese concede alle donne, spazio che lei si è conquistata sui social, fino a diventare un punto di riferimento per altre ragazze. Dall’altra parte del mondo (la parte giusta) migliaia di ragazzini rincretiniti dai social corrono a branchi, calpestandosi l’un l’altro, o incuranti del traffico sotto le macchine, perché incapaci di guardare oltre lo schermo del proprio smartphone, all’inseguimento di un Pokemon. E il giornalista sorride divertito della cosa, come se fosse un gioco.

sabato 16 luglio 2016

postilla

E quando un giovane scrittore mi dice che spesso ripeto le parole nei miei testi, anche a distanza di due righi, e che questo non si fa, e che dovrei trovare dei sinonimi invece, io tutte le volte mi viene da dirgli: ne devi friggere polpi. (Aggiungo che: io tutte le volte mi viene da dirgli... non si dovrebbe mai dire, forse, ma se lo fa Paolo Nori allora io anche sì, perché la scrittura è suono).

c’è una donna (a péter esterhàzy con affetto)

Leggo adesso che due giorni fa è morto Péter Esterhàzy, scrittore ungherese di cui devo la conoscenza a una raccolta di scritti di Mimmo Pastore, che abbiamo pubblicato in Pietre Vive tre anni fa. Mimmo dedicava una intera sezione del suo libro (Fuori fuoco) a un libro di Esterhàzy (Una donna), che faceva suo e rielaborava in chiave postmoderna. In quella sezione, così come nel libro dell’ungherese, veniva esplorato in maniera volutamente frammentaria il complesso rapporto fra i sessi, senza che comunque si potessero trovare risposte adeguate a tanta complessità. Esterhàzy, matematico passato alla scrittura, voleva forse dimostrare quello che, per istinto, intuiamo già tutti: che la somma di uno più uno nella coppia non dà mai perfettamente due, ma sempre qualcosa in più o qualcosa in meno. In quello scarto si nasconde il mistero dell’amore. Non so se ci sia mai riuscito, magari in altri libri, non l’ho letto abbastanza da poterlo dire. Fatto sta che da quel suo libro restammo tutti invischiati in Pietre Vive. E tutti ci siamo cimentati, prima o poi, a scrivere su quell’arcano della coppia, continuando nella scia della sua opera e partendo dal suo celebre incipit: «C’è una donna». L’unico postulato della formula prima di abbracciare il caos.

venerdì 15 luglio 2016

germogli

Chi lo ha comprato continua a dirmi che il mio libro è bello, e questo ovviamente mi rende felice. Ma ancora di più mi rende strafelice sapere che lo leggono al mare. Significa, per me, mandare al diavolo il preconcetto borghese che i libri devono stare rinchiusi nelle scuole o nelle biblioteche, nei luoghi dove si fa silenzio. E invece, chi li ama lo sa che i libri di poesia cercano la luce, come le piante. Se mentre li sfogliate gli fate sentire musica a tutto volume, gli spuntano persino i germogli fra le pagine.

puntino rosso

8 luglio 2016. Presentazione di Bestiario Fiorito nella mia Locorotondo, in Largo Bellavista, chiamato così perché si affaccia direttamente sulla campagna della Valle d'Itria (ma detto anche Largo Tempesta o Capovento, perché quando soffia lo scirocco si infila da lì attraverso i vicoli del borgo con una tale violenza che rischi di essere portato via con lui). Intorno a me tutti i miei amici, che non nomino solo perché sono troppi. E io sono quel puntino rosso al centro. Fotografia di Nando Cannone.

mercoledì 13 luglio 2016

la retorica del binario unico

La retorica del binario unico è quella cosa per cui domani aggiungeranno un binario in più sulla tratta di un brutto incidente, e tutto tornerà com'era prima nel giro di sei mesi. Ma un incidente è un incidente, il dolore che lascia è indipendente dalle toppe che metti. E le insufficienze infrastrutturali del Sud sono lì da molto più tempo. Mischiare le cose non è utile a nessuno e non è nemmeno giusto. Avrebbero dovuto darci più treni e ferrovie semplicemente perché siamo cittadini di uno Stato, e non perché è successa quella brutta cosa. Allo stesso modo non dovremmo lamentarci ora della loro mancanza per via del dolore o della rabbia, ma esigere sempre quei diritti per tutti, far sentire la voce in maniera pacata, ma decisa e continua, e magari usarli di più i treni, proprio per dimostrare che, al di là della retorica, ci appartengono e ne abbiamo bisogno.

domenica 10 luglio 2016

breve intervista a carlo formigoni

Siamo seduti nell’aia, poco prima del buio. Parliamo quasi senza guardarci, due voci sotto i fari. Formigoni mi dice: son vecchio, spero ormai di farcela a ridare al teatro quanto mi ha dato. Gli dico: hai dato tanto al teatro anche tu. Ma lui mi risponde: non basta, non basta mai, perché il teatro a me ha dato tutto. Tutto. E si guarda le punte delle mani fredde, manomesse, sconsolato. C’è solo da accettarlo, gli dico, quando il corpo cede al tempo, la lucida rassegnazione diventa un’arma. Sto provando coi rimedi naturali, aggiunge lui, come per svagarsi dal pensiero. Fai bene, gli dico, e gli racconto di uguali rimedi usati da mio nonno che è morto quasi a cento. Sentirlo lo rincuora, lui che ne ha venti di meno e progetti senza alcun termine. Mi dice che c’è ancora da lottare, per i teatranti, per i poeti. C’è da insistere, insistere e non fermarsi, recitare, ripetere, perché solo i testardi vincono le loro battaglie. Gli racconto ancora di mio nonno. Godeva di ogni attimo, anche vuoto, come se fosse il più prezioso. È vero, mi dice, anche io l’altro giorno son stato al mare, ed era così bello, così intenso, che il sole mi ha ferito il cuore, e mi son detto basta, è l’ultima volta che lo vedo. Lo preserva per sempre, adesso, nella sua perfezione. Mi congeda, dunque, con affetto. Dottor Lillo, ci siam detti tutto.

primo raggio di sole nel giardino dei cactus

sabato 9 luglio 2016

marzialina

Liliana, ce ne vuole essere trita
per poter dire della vita che tu
tutto capisci, e prima che la vita
di te dica: «quella lì non l’ho capita».

la tuttologa

La legge delle probabilità non perdona, così anche a me, come a tutti prima o poi, stasera è capitata la tuttologa. Se n’è arrivata in pieno post-novecento, proferendo come il suo poeta preferito sia Giacomo Leopardi, ma letto attraverso Severino. Da sola infatti non avrebbe mai capito che A se stesso fosse un canto dalla viscere e non dall’universo finto mistico in cui si pavoneggia. Poi critica il mio libro, il mio Bestiario, di cui non ha ascoltato un solo verso né una spiegazione, asserendo che dell’«intellighenzia» sono degno, perché da un piedistallo mi permetto di puntare il dito contro gli altri definendoli maiali, pur nella loro naturalità di porci. E quando poi, di nuovo, interrompendo la mia presentazione, mi chiede di definire da una mia poesia la parola «tutto» (cito il verso: «e se non posso avere tutto, allora non voglio nulla», a cui risponde indispettiva: «definisci cosa intenti per tutto!»), lei da vera tuttologa si risponde da sé, citando Severino, né si può capire nulla del suo punto di vista, nulla che valga del «tutto», se non si è visto Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, scusandosi poi con gli altri spettatori se cita un film che probabilmente non conoscono. Conclude, da brava tuttologa, che questo succede perché ci mancano le basi storiche, e in fondo in Italia sono tutti mafiosi. Non certo lei che, pur italiana, continua a cantare a se stessa il suo mondo finto mistico in cui si pavoneggia, dove non c’è spazio per nessuno che non sia Severino.

mercoledì 6 luglio 2016

l’ultima cosa a staccarsi

Quasi fosse consapevole della fragilità e infedeltà cui vanno soggetti i sensi e le facoltà dell’uomo, una poesia mira alla memoria umana. A questo fine essa adotta una forma che è essenzialmente un congegno mnemonico tale da permettere al cervello di trattenere un mondo – semplificando anche il compito di trattenerlo – quando il resto della carcassa comincia a cedere. Di solito la memoria è l’ultima a partire, come se cercasse di registrare le fasi della partenza. Così può accadere che una poesia sia l’ultima cosa a staccarsi dalle povere labbra di un vecchio. 

[Iosif Brodskij, Il figlio della civiltà, trad. Gilberto Forti, in Fuga da Bisanzio, pag. 91, Adelphi 1986]

sabato 2 luglio 2016

non sono solo

Stamattina mi è capitato di parlare con un mio amico che vive fuori e talvolta ritorna a trovare la famiglia e i pochi amici che gli sono rimasti qui. Gli spiego un paio di progetti che ho in testa e a un certo punto mi fa: Ma come fai a vivere qui? Che c'entri tu con questi provinciali? Così volevo spezzare una lancia a favore di chi come me vive in paese. Non sono solo. A parte me, infatti, ci sono altri dieci non provinciali e ben dodici non troppo provinciali, di riserva.

venerdì 1 luglio 2016

incomunicabilià

Un giorno mi dovranno spiegare perché taluni reggisti (con la doppia -g-) non hanno il sito, né il blog, né la pagina social (manco quella chiavicosa di twitter) e nemmeno le pagine gialle. Tu ti sbatti per contattarli, fai chiamate ad amici di amici, rivali e conoscenti, né sai raccapezzarti. E anche se capisci bene che il silenzio è d'oro e non tutti vogliono un profilo pubblico, lo stesso ti chiedi: ma questi, senza telefono, come lavorano? O forse siamo finiti per sbaglio in un altro film di Antonioni?