domenica 18 settembre 2016

follia e morte

Scrive Iosif Brodski, in Fondamenta degli Incurabili, che passando molti mesi dell’anno a Venezia, sua città del cuore subito dopo Pietroburgo, gli capitava spesso di incontrare degli italiani che si dicevano “comunisti”. Quando gli capitava, lui, che era cresciuto nel comunismo e fu condannato e processato e poi era fuggito dal comunismo di Stalin, doveva reprimere i conati di vomito se non veri e propri istinti violenti. Ancora Dmitrij Sostakovic, che in Russia visse sulla sua pelle il favore e il disamore di Stalin, al dittatore dedicò pagine feroci della sua musica, basti pensare alla sua descrizione della Quinta Sinfonia, opportunamente sottotitolata “Risposta ad una giusta critica”, dove la critica era quella di Stalin che stroncò con una tale durezza il suo Lady Macbeth, da far considerare a Sostakovic l’idea del suicidio. Dice Sostakovic: «Ritengo sia chiaro quel che accade veramente nella Quinta. Il giubilo è forzato, è frutto di costruzione. È come se qualcuno ti picchiasse con un bastone e intanto ti ripetesse: “Il tuo dovere è di giubilare, il tuo dovere è di giubilare”. E tu ti rialzi tremante con le ossa rotte e riprendi a marciare bofonchiando: “Il nostro dovere è di giubilare, il nostro dovere è di giubilare”». Una volta si diceva, con una certa ingenuità, che i comunisti erano il male e mangiavano i bambini. In realtà il comunismo, che era sinonimo di “Potere”, come qualsiasi altro potere del mondo divorava soprattutto gli artisti, perché gli artisti avevano voce rivoluzionaria, e quella che meno sopporta il Potere è la voce degli altri. Così anche Andrej Platonov, da alcuni considerato il maggior romanziere russo del ‘900, per quanto puramente comunista, lo era a tal punto da superare in fede (e dunque sbugiardare) i propri capi, e fu ridotto al silenzio col ricatto, quando presero suo figlio e lo spedirono in Siberia. In Cevengur, il suo capolavoro, Stepan Kopenkin, un cavaliere errante in groppa al suo cavallo chiamato Forza Proletaria giunge nel villaggio di Cevengur, sospeso in una atmosfera di follia e di morte perenne, portandovi nuova morte nel nome di Rosa Luxemburg e sondando così i confini del comunismo reale, in cui speranza e morte si confondono senza più soluzione né perdono.

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