venerdì 29 marzo 2024

sogno della valigia

Nel sogno devo partire per il prossimo viaggio e per questo tutti i miei amici vengono a trovarmi a casa per salutarmi. Le sedie non bastano per tutti, così le cedo a loro e resto seduto per terra, a gambe incrociate, accanto alla mia valigia che è talmente grande e appariscente da sembrarmi volgare. Parlo con tutti con piacere sincero e dedico a ciascuno un sorriso, persino a chi mi rinfaccia di trovarmi eccessivamente dimagrito e stanco provando a passarmi un piatto di minestra. Soltanto dopo, quando arriva l’ora di andare mi accorgo che le mie gambe non si muovono, si sono addormentate. Così i miei amici che sembrano già sapere tutto mi aiutano. Aprono la valigia, che è vuota, mi prendono con cura per non farmi male e mi depositano al suo interno, accomodandomi gambe e braccia e richiudendola con la sicura. A questo punto non vedo più nulla, sento le scosse e i rumori del trasporto mentre vengo accompagnato verso non so dove, e mi rendo finalmente conto che se è vero che dovevo partire non conoscevo ancora la meta. Sono lucido nella valigia e questo mi spaventa. Sospetto addirittura di essere morto. E se la morte fosse questa perenne vigilanza anche dopo che ti hanno rinchiuso al buio, sarebbe orribile. Per fortuna si sentono molti rumori di strada e questo mi fa compagnia. Ma la valigia viene riaperta e mi ritrovo in una nuova stanza piena di gente che non conosco, seduta o in piedi, che parlotta distratta di fronte a me. Qualcuno mi tira fuori dalla valigia e poiché non ho più forza negli arti, che ricadono giù come se fossero disarticolati, come se io stesso fossi ormai trasformato in un burattino, mi depositano per terra, con le spalle appoggiate contro la valigia, e mi richiedono di descrivere la mia storia e parlare di come sono arrivato fin lì. Io lo faccio al meglio che posso, o perlomeno ci provo, ma la gente non mi ascolta, eppure ogni volta che ho finito qualcuno dal pubblico si volta a guardarmi e mi chiede: Scusa, non abbiamo capito, puoi ripetere? E a me, anche se sono intimidito, per una sorta di meccanismo interno o forse soltanto perché non mi sento pronto a tornare nella valigia, prende la voglia di fare meglio e ricomincio a raccontare da capo.

giovedì 28 marzo 2024

parola e libertà

Oggi parlavo con dei ragazzi del fatto che non è il lavoro a renderti libero, come spesso si dice, ma la parola. Il lavoro è un diritto, è una necessità che serve a soddisfare dei bisogni primari, si lavora per mangiare e avere una casa, quindi è importantissimo, ma nella maggior parte dei casi non ti rende libero e spesso nemmeno felice. L’unica libertà possibile riservata all’uomo è nella parola, nell’espressione incondizionata delle proprie idee, magari è una libertà fugace e senza conseguenze, ma nel momento stesso in cui ti esprimi ciò ti rende libero. Quindi è una cosa che va difesa per sé e per tutti, anche per chi ti dice che non capisci niente. Se poi la parola è scritta, e se è scritta bene, ho aggiunto, è meglio ancora. Ma lì mi sono fregato. Una ragazza infatti mi ha chiesto: scusa Lillo, ma se io scrivo non per dire il mio pensiero agli altri, ma per me stessa, perché se non lo faccio sto male, mi sento di scoppiare dentro se non lo faccio, anche quella è libertà? È stata una bella domanda. Infatti ci sto ancora pensando.

mercoledì 27 marzo 2024

poesia civile oggi

Quando mi dicono che in Italia non c'è più spazio né modi per la poesia civile mi viene da rispondere certo che c'è: Altan, Marco Biani, Maicol&Mirco... fanno loro per tutti. E infatti i primi a condividere sono proprio i poeti. Riconoscono il respiro, anche se gli manca il verso.

martedì 26 marzo 2024

quando sarai libro

"Quando sarai libro" mi scrive un amico per un lapsus. Intendeva "libero", ma essere libro, diventarlo, potrebbe significare anche una certa forma di libertà. Questo pensavo ieri, finché mio cugino non mi ha chiesto di scrivere un libro della sua vita, quello che sognano di fare tutti e che ormai non puoi più negare a nessuno perché gli unici libri di narrativa che vanno sono quelli di autofiction. Se non hai raccontato i fatti tuoi in un libro allora non sei nessuno come narratore, non ti vuole nessuno. Mi diverte perché questa è la cosa che più spesso si rimprovera alla poesia, di essere diventata eccessivamente autoreferenziale. Il romanzo vende qualcosa di più ma non si stacca dall'adagio comune che per "essere libro" bisogna prima di tutto essere libro aperto, e calarsi le mutande con stile. Solo lo stile fa la differenza. Poi qualcuno che sbircia dal buco della serratura lo trovi sempre.

domenica 24 marzo 2024

dare scandalo

 C’è un momento esilarante e allo stesso tempo tragico nella lunga carriera di Molière di cui parla Cesare Garboli nel suo ultimo libro (Il «dom Juan» di Molière, Adelphi, 2005), ed è quando all’apice del successo come commediografo e impresario teatrale, dopo aver creato una maschera nuova e inaudita, quella di Tartufo, il servo che vuole farsi padrone e che deruba il proprio protettore di ogni suo bene attraverso l’astuzia e l’inganno – perché diversamente dai vari Arlecchino e Pulcinella, servi sciocchi che sanno stare al loro posto, Tartufo è una maschera modernissima, già borghese ed inserita nelle lotte di potere e che per di più indossa la tonaca, si dice in contatto con Dio! – al punto da creare uno scandalo a corte con la censura dell’opera e la richiesta da parte del re in persona, Luigi XIV, di una riscrittura che porta il copione originale da tre a cinque atti dove la nobiltà ingiustamente usurpata riesce a ribaltare la situazione e riprendersi il maltolto, restaurando (ancora per poco) l’antico regime; dopo questo scandalo, cercando di mettere una pezza alla programmazione dissestata della prossima stagione teatrale, Molière scrive in quattro e quattr’otto una nuova commedia in cui non crede molto nemmeno lui, attorno a una maschera spagnola giunta in Francia attraverso l’Italia, quindi per nulla originale, quella del libertino Don Giovanni, dunque non un servo ma un padrone stavolta, riadattandola qui è lì ma in modo tale da farne, quasi inconsapevolmente, lo specchio di una nobiltà orrendamente libera, arrogante, vuota di valori e priva di onore e peggio ancora di religione, più volte apertamente derisa, insomma qualcosa che la nobiltà dell’epoca avrebbe potuto essere se fossero caduti tutti i veli cerimoniali e le imbellettature dietro cui si nascondeva. La commedia è un successo strepitoso di pubblico presso la classe cittadina, ma dà di nuovo scandalo a corte, viene intesa come una satira del potere dunque in piena continuità col Tartufo, al punto che Molière, ormai considerato un sovversivo, ne viene quasi rovinato e addirittura processato. Ed è qui che sta il lato esilarante della faccenda, perché Molière non era un sovversivo, ma un autore di successo strettamente legato agli ambienti di corte da cui dipendevano le sue fortune, non aveva alcun interesse a irriderla e tutto questo, infatti, succede contro la sua volontà, senza che lui ne capisca davvero le ragioni, in quanto personalità come la sua non si inventano a tavolino “lo scandalo”, non ne hanno bisogno, lo danno semplicemente esistendo, respirando, pensando, facendo ciò che vogliono fare senza troppe esitazioni, ma solo perché “funziona in scena” dunque rende più forte lo spettacolo. Ci dice Garboli: “La vera accusa, che precede quella di empietà e di offesa alla religione, è di «dare scandalo», cioè di portare in scena e di mettere davanti agli occhi del pubblico ciò che le regole della decenza vogliono seppellito, sussurrato o taciuto. […] Quando Molière si difende dall’accusa di empietà invocando i diritti della professione, non mente affatto e non fa affatto l’ipocrita. Dice proprio la verità. Solo che, nel medesimo istante, difende il proprio diritto a dare scandalo. Difende il suo diritto di inventore del teatro moderno”. Molière insomma voleva solo fare arte, realizzare un’opera che facesse ridere gli spettatori, ma captando gli umori del tempo e usandoli a vantaggio della propria opera fa molto di più, scuote nel profondo la società dell’epoca punzecchiandola nelle sue ipocrisie. E tale fu l’onda di risentimento che lo sommerse che rimase solo, perse ogni amico, compagno, perse addirittura la moglie, al punto che poi riversò il suo malumore in un’opera dedicata alla falsità e alla volubilità degli affetti, il Misantropo, presentandolo come la fine di un periodo (e forse della vita), e non sapendo che ne avrebbe aperto un altro.

sabato 23 marzo 2024

parallelo

Film commovente, di grandissima bellezza visiva, La viaccia (1961) di Mauro Bolognini, con Jean Paul Belmondo, Pietro Germi e una Claudia Cardinale al culmine della sua bellezza, segna il passaggio dalla sua prima fase artistica, più originale sul piano dei contenuti attraverso le sceneggiature, spesso di Pasolini, alla seconda, dove si attiene a realizzare raffinate trasposizioni di opere letterarie, spostando il contenuto sullo stile, dove insomma il contenuto è lo stile. Non a caso il confronto con Visconti. Qui però le atmosfere rimandano ancora alla prima fase più nichilista e pregna di mal di vivere delle sue più recenti pellicole con Pasolini (non a caso torna la Cardinale come nel Bell’Antonio a dare volto a un amore tanto necessario quanto impossibile da trattenere). E infatti, lancio un parallelo, secondo me il finale con Jean Paul Belmondo che dopo aver dichiarato a sua madre che non può vivere senza di lei, attraversa correndo Firenze per rivederla sulle note della “Rapsodia per sassofono e orchestra” di Debussy ha secondo me una eco nel successivo Manhattan (1979) di Woody Allen, dove l’identica scena si ripete a New York sulla “Rapsodia in blue” di Gerswhin. Nel film di Bolognini questo amore è già segnato e infatti Ghigo (Belmondo) riuscirà a rivedere Bianca (Cardinale) scomparire dietro un vetro prima di allontanarsi per sempre, nel film di Allen, pur nell’imminente separazione, Allen offre una speranza a questo amore nell’ultima battuta di Tracy (Mariel Hemingway), “bisogna avere un po’ fiducia nella gente” e nel mezzo sorriso di Allen, uno dei suoi pochissimi su pellicola, che sembra quasi fare il verso a quelli così vulnerabili del giovane Belmondo.

post strega

Stamattina volevo scrivere un post sul Premio Strega Poesia. Questo perché una ragazza mi ha scritto di aver letto uno dei libri proposti e avendolo trovato brutto e insignificante non si capacitava della cosa, com’è possibile che un libro così brutto sia finito allo Strega? Mi piaceva l’idea di spiegarglielo per bene, perché non pensasse che anche gli altri libri potessero essere altrettanto brutti e insignificanti, alimentando un’idea fin troppo diffusa che non ci sono più buoni libri di poesia in Italia, cosa ASSOLUTAMENTE NON VERA anche se i primi detrattori del genere sono proprio i poeti che comprano poco, leggono meno ma parlano male di tutti; poi mi è passata la voglia di giustificare meccanismi che nemmeno io capisco, né approvo, non il premio in sé che è un premio come tutti gli altri per quanto imbellettato, ma più vicino alla patacca che al prezioso, ma proprio per come viene fatto, con una serie di difetti alla base che non sto a elencare perché tanto è inutile, nel mondo della poesia tutti sanno tutto ma fanno finta di niente come la folla che applaude il re nudo, poi ogni tanto qualcuno dice qualcosa di un poco scomodo e tutti esultano “oh finalmente qualcuno lo ha detto!”, e tu mio caro esultante non lo sapevi già che avevi bisogno di qualcuno che facesse la voce per te? Quindi preso dallo sconforto, tanto più che ero in fila in farmacia, le ho detto per sommi capi la verità, che per me il Premio Strega Poesia è un premio di serie B al punto che non ha nemmeno amici della domenica bensì editori della domenica che presentano i libri al ribasso, tanto per dire che ci siamo, e l’ho chiusa lì con un lieve senso di colpa perché le cose andrebbero spiegate meglio di come ho fatto io, altrimenti diventano lamentazioni e giudizi sommari, ovvero “chiacchiere e distintivi” da poeti della domenica come ce ne sono anche troppi in giro.

giovedì 21 marzo 2024

dalla cina

Giornata mondiale della poesia. Mi scrivono sulla chat della casa editrice per segnalarmi il profilo della loro azienda cinese che produce zappe da giardino e dicono: Questo può certo interessarvi!

partecipazione

Sullo schermo Jorge Riechmann un poeta spagnolo che sceglie di non usare più l'automobile né I'aereo per non partecipare nel suo piccolo all'inquinamento del pianeta, non essere complice. Un poeta italiano, lo so già, di fronte a tale decisione, lo definirebbe un coglione e/o illuso e aggiungerebbe che con una simile coerenza non salvi nessuno e ti complichi la vita, serve una rivoluzione, abbattere i padroni, che sono i veri colpevoli, ma nel frattempo non farsi riempire la testa di cazzate ambientaliste e vivere con ciò che si ha, senza rinunciare a nulla. Non potendo partecipare alla salvezza collettiva del mondo, che è una utopia, il poeta sceglie di partecipare alla sua distruzione, nel suo piccolo, come può.

mercoledì 20 marzo 2024

l'odore della poesia

«Poesia viene da pus» scrive Magrelli in Exfanzia, «poetare-suppurare-suppoetare», e a me viene da pensare, per associazione, a Filottete, l’arciere greco protagonista di una tragedia di Sofocle che viene abbandonato su un’isola deserta da Ulisse, mentre sono diretti a Troia, perché ha una gamba in cancrena che emana dalla ferita purulenta un odore orribile, un odore di morte in vita insopportabile; e che poi dieci anni dopo Ulisse stesso andrà a recuperare perché una profezia rivela che senza di lui e senza il suo arco infallibile la guerra di Troia non potrà essere vinta. Facile immaginarsi, a questo punto, come Ulisse, l’astuto Ulisse, sia il mercato editoriale teso alla conquista della città nemica (la letteratura) in cui è custodita la bellezza (Elena), e Filottete malmesso e zoppicante, ma pur sempre quello con la mira più lunga, sia la poesia abbandonata al suo destino mortale perché considerata inutile alla guerra. Eppure i presagi sono chiari, non c’è vittoria senza poesia, e allora bisogna tornare indietro, riprendere i rapporti, scusarsi, patteggiare, lusingarlo, ingannare se occorre l’orgoglio offeso del ferito, almeno stando a Sofocle. E sopportarne soprattutto l’odore mefitico, l'odore della poesia.

due bacheche

Quando nella stessa giornata leggi prima uno scrittore piuttosto seguito che sulla sua bacheca nomina Lorenzo Calogero descrivendolo per ciò che era, un grande poeta ammirato da Ungaretti e Montale ma dimenticato dai più, tanto che sotto c'è chi osserva stupito "non lo conoscevo" e tu pensi (mordendoti pure la lingua): "Per forza, era calabrese", però non è colpa loro, alla fine nemmeno i meridionali lo sanno cosa c'è in Calabria, e allora come fai a incolpare gli altri? E poi un altro che giustamente si lamenta che quando chiede ai suoi contatti di indicargli quali sono i capolavori letterari dell'anno ognuno gli propina una lista di venti trenta titoli, come se i capolavori li potessi cogliere dall'albero come le mele. Ecco lo iato che fa la differenza, quello per cui gattopardescamente 2+2 non fa mai 4 ma tutto sempre torna, a fare i conti, in quell’atomo opaco del male per cui tutto è capolavoro, per chi ne capisce, e nessuno è genio, e si merita per questo di morire solo.

un buon sceneggiatore

Ci sono incontri che ti cambiano la vita anche sotto il profilo artistico. A volte preso in giro come un Visconti minore, Mauro Bolognini fa parte di quella schiera di registi tecnicamente molto dotati ma che hanno bisogno di un buon sceneggiatore per risplendere. Nel suo caso il personaggio chiave della sua filmografia è stato Pier Paolo Pasolini che prima ancora di fare egli stesso del cinema aveva lavorato come comparsa e sceneggiatore con Mario Soldati e Federico Fellini. Con la collaborazione di Pasolini, che per lui scrisse e adattò alcuni soggetti assai innovativi per l’epoca, Bolognini ha dato vita al periodo artisticamente più rilevante della sua carriera, quello fra la fine degli anni ’50 e i primi ‘60, con titoli come Giovani mariti (che fa il verso a I vitelloni), La notte brava, Il bell’Antonio e il più volte censurato La giornata balorda. Dei quattro i più belli sono probabilmente i due centrali, con La notte brava, interamente scritto da Pasolini, che è un film straordinario, dal ritmo forsennato, che attinge tanto al noir americano quanto alle atmosfere borgatare e al mal di vivere tipici di Pasolini, e Il Bell’Antonio che riprende la trama di Brancati ma la rielabora e trasforma per renderne più forti le atmosfere nichiliste e mortifere, il senso di vuoto che lo pervade. Dopo questi Bolognini farà ancora degli ottimi film (La viaccia, Senilità), ma tenderà ad adeguarsi nei ‘70, anche su suggerimento proprio di Pasolini che gli diceva “tutto ciò che ti serve è nel libro stesso” (il problema, aggiungo io, è come lo leggi) su un cinema di trasposizione letteraria eccelso sotto il profilo formale ma forse privo di guizzi (con delle palesi eccezioni, come ad esempio il truculento e sardonico Gran bollito). Oggi Pasolini è più famoso, ma il loro fu un rapporto di vera amicizia, di scambio alla pari, tanto che lo stesso Pasolini, che molto aveva imparato da Bolognini in ambito di ripresa e montaggio, quando decise che era venuto per lui il momento di girare il suo primo film, dopo un bidone ricevuto da Fellini, venne aiutato proprio da Bolognini che si era innamorato del suo progetto e gli trovò nel giro di un pomeriggio un produttore, Alfredo Bini, non solo restituendogli il favore, ma contribuendo effettivamente alla creazione di Accattone.

martedì 19 marzo 2024

sgangarèd

Adesso che ha vinto la pigrizia non ne faccio quasi più, ma anche prima, quando partecipavo ai reading, preferivo sempre leggere, rispetto alle mie, le poesie degli altri, perché alla fine la poesia è condivisione di qualcosa che ti piace e sinceramente io non mi piaccio un granché. La poesia mi piace ancora, invece, anche se mi stanca parecchio. Ma prendendo insieme le volte che ho letto, posso dire che almeno fra le mie scelte le due poesie che in assoluto piacevano di più al pubblico, avevano in comune una cosa: il dialetto di Santarcangelo di Romagna, un luogo bellissimo che ho visitato anni fa con Clery Celeste. Delle due, una poesia d'amore delicatissima era di Raffaello Baldini e si chiamava IN DEU (In due) e l'altra, di Nino Pedretti, era E’ MI BA (Il mio babbo), che penso sempre contenga i versi più belli in assoluto mai scritti su questo argomento, e quella parola "sgangarèd" (sgangherato) che ti balla sulle ossa come un vestito troppo grande e tenuto stretto dalla cinta, l'odore buono della povertà e della terra, tanto che ogni volta che leggo i tre versi finali di quella poesia me li sento cuciti addosso come fossero miei in un'altra lingua. E sono versi, aggiungo, scritti in dialetto perché la lingua dei padri, o meglio ancora la nostra lingua affettiva è nel dialetto, cioè dentro la pancia, o meglio fra la pancia e la gola, non nell'italiano, che sta sopra, nella testa. L'italiano viene dopo, già traduce. E la poesia di Pedretti, bellissima, finisce così:

 
...e’ mi ba, fra i ba e’ piò sgangarèd,
l’a scrétt dréinta ad mè
tott al mi poeséi.
 
...mio padre, fra i padri il più sgangherato
ha scritto dentro di me
tutte le mie poesie.

lunedì 18 marzo 2024

autoscatti

Autrice che mi manda in visione una raccolta di poesie erotiche puntualmente illustrate da autoscatti col telefono in cui fa (o rifà) le stesse cose di cui scrive (ma sempre in reggiseno, perché c'è un significato). Io sfoglio l'opera e penso che forse preferisco le foto alle poesie, e credo anche che dovrebbero fare tutti così.

sabato 16 marzo 2024

la felicità è un grappino sincero per rompere le corna ai sogni

 

caso

Il caso letterario del giorno fra due amici che di sabato sera fanno discorsi noiosi. Io: Ma che Philip Roth lo pubblichi Adelphi invece di Einaudi di preciso cosa modifica nel nostro universo? Tanto per noi o che lo stampa uno o che lo stampa l'altro sempre davanti alle palle ce lo troveremo, e in tutte le librerie. E poi, va bene che è il colpaccio di Adelphi, ma a noi che non lavoriamo né per Adelphi né per Einuadi, fondamentalmente, che ci frega? Risposta del mio amico: A te non cambia nulla, a me rovina l'estetica dello scaffale che gli ho dedicato, vuoi mettere l'algila eleganza dei volumi Einuadi con pastelloni di Adelphi? Bleah!

venerdì 15 marzo 2024

margherita

Che ci vuole a fotografare una margherita? Niente. Ma pensa sempre che ogni singola margherita è unica e diversa da tutte le altre. Siamo noi che le consideriamo tutte uguali per il semplice motivo che la nostra vista è limitata da un pregiudizio e non siamo capaci di vedere le differenze.

puposkij

Dopo Jorit, ecco Pupo che "ispirato da un sogno" fa un concerto per la pace al Cremlino, tutto spesato per una settimana, dicendo che quella sarà la sua "trincea"... Povera pace, mi viene da dire. E povera gente in trincea. Leggendolo, mi è tornato alla mente uno sketch di Checco Zalone che una volta a Zelig con Stefano Bollani improvvisò un duetto basato sulla storia di un pianista romantico "russo meridionale" chiamato Gigi van Dalenskij, il quale aveva scritto i famosi "Notturni per la sola mano sinistra" ispirati al suo amore non corrisposto per Anna Tatanjalov, la quale gli aveva invece preferito Puposkij... Tutto torna, allora, in Russia, alla barzelletta, ai notturni per mano sola. Alla maschera di Pupo ovvero Puposkij. È inutile, Ruzante ce lo insegna, forse per la loro stessa storia gli italiani quando parlano di pace riescono solo a fare la commedia all'italiana. Fanno ridere con l'amaro in bocca.

stupidità politica

Sempre dal libro in traduzione a cui stiamo lavorando in questi mesi, si riporta il verbale di un accorato consiglio comunale avvenuto nel 1827, due secoli fa, in cui il sindaco di allora, Aprile, fece un discorso applaudito all’unanimità dall’intera giunta in cui si proponeva di riportare entro i confini del paese tutti i contadini di Locorotondo (che già all’epoca aveva il territorio rurale più densamente popolato della Puglia subito dopo Bari), motivando la sua decisione con l’idea che una vita in campagna, esposta completamente alla natura come quella che facevano i contadini di allora, tirava fuori le abitudini più "bestiali" e allontanava gli uomini dall’ordine e dalla legge. Scrisse quindi all’intendente provinciale perché mobilitasse le forze dell’ordine per uno spostamento coatto dei contadini verso il paese. Ma l’intendente, stupito dalla richiesta, rispose al sindaco che oltre a spostarli poi questi contadini dovevano anche mangiare e se li toglievi alla loro terra che cosa gli restava? Ma considerando con preoccupazione il decadimento morale degli stessi scrisse anche all’Arcivescovo perché si costruisse in campagna una nuova chiesa con tanto di casa per il prete. All’anima dei contadini, insomma, ci avrebbe pensato lui.

amica al telefono

 Amica che non si fa sentire mai, se non quando si lascia con qualcuno per farsi consolare, mi chiama all’improvviso dopo mesi. – Oddio, ti sei lasciata! – Ma perché pensi sempre questo di me, sempre questi luoghi comuni! Siamo amici o no? E se una persona è tua amica non può volerti chiamare solo per salutarti e sapere come stai? Basta Lì, sempre con questo tono giudicante, mi offendi! – Ok. Scusami, scusami… Allora va bene, come stai? Come va? – Oddio Lì, va tutto male, mi sto lasciando! E io vengo da te perché ho bisogno delle parole di un amico, e tu mi fai capire che sono prevedibile e scontata! Invece di consolarmi peggiori la situazione! – Adesso non esageriamo, non ho mai usato la parola “scontata”. Va be’, c’è qualcosa che posso fare per non peggiorare la situazione? – Basta che adesso non mi fai una battuta sulle tette o mi chiedi se ho il ciclo, non lo sopporterei! – Ma perché, ce l’hai? – Oddio, Lì. Sbuffa. Chiude il telefono.